Quello “strano” non profit fatto di ristoranti e banche

Il quadro del non profit in Italia è di tutto rispetto: 301.191 istituzioni, quasi un milione di lavoratori (ma i dipendenti vengono quantizzati in 47mila), 4,7 milioni di volontari. E soprattutto 80 miliardi di euro di entrate che rappresentano oltre il tre per cento del Prodotto interno lordo. Un’area non proprio marginale, quindi, come talvolta si crede. I numeri, però, non possono fornire la realtà dettagliata di un settore articolato e complesso, che include mondi estremamente differenti l’uno dall’altro, talvolta in netta antitesi.

Per capirne di più ci viene in soccorso un approfondito libro, edito da Laterza, che s’intitola esplicitamente – e provocatoriamente – “Contro il non profit”. Nonostante il titolo, il testo non intende “distruggere” tout court il settore, bensì fare luce su una realtà estremamente disomogenea dove s’annidano tanti “furbetti” e soprattutto un mare di retorica. Da qui l’analisi, anche spietata, che tocca molti “nervi scoperti”.

A firmare l’indagine è il sociologo Giovanni Moro, classe 1958, figlio del politico democristiano ucciso dalle Brigate rosse nel 1978. Uno che questa realtà la conosce bene in quanto al sua è una vita tutta immersa nel sociale: tra i fondatori di Cittadinanzattiva, direttore di Fondaca, think-tank costituito nel 2001 che si occupa di temi connessi alla cittadinanza, insegna presso la facoltà di Scienze della formazione a Roma Tre e presso la facoltà di Scienze sociali dell’Università Gregoriana.

L’autore compie innanzitutto un “ripensamento critico” smontando quel concetto generalizzato nell’opinione pubblica che associa il cosiddetto “terzo settore” ad un “mondo di bontà” costituito esclusivamente di carità e disinteresse. Moro, al contrario, si addentra in un “magma” caotico fatto non solo di organismi che presentano marcate differenze tra loro, ma anche di un ginepraio di norme e di definizioni opache ma quasi sempre vantaggiose.

Se per la maggior parte dell’opinione pubblica, dietro la sigla “Onlus” ci sono organizzazioni preziose perché non distribuiscono utili, favoriscono la coesione sociale e rispondono ai bisogni dei più deboli, in realtà è una teoria difettosa quella che mette insieme iniziative della massima utilità sociale con altre che utilizzano a fini propri l’alone di benemerenza di cui questo insieme gode. Il loro contributo all’interesse generale, pertanto, non è scontato.

All’interno di questo universo convive infatti un po’ di tutto: oltre ad associazioni caritatevoli, mense per poveri, organismi di volontariato sanitario, organizzazioni sportive per disabili, doposcuola in quartieri degradati, centri di riabilitazione per ex detenuti, cooperative sociali, anche banche, sindacati, fondi assicurativi e previdenziali, enti lirici, università non statali, cliniche religiose non proprio a buon mercato, ristoranti, pub, addirittura centri fitness ed esclusivi circoli sportivi, di scacchi e musicali.

Più nel dettaglio, da quando, nel 1997, è entrata in vigore la legge Zamagni la parola Onlus definisce una tipologia di attività vaga e quindi spesso strumentalizzata. È infatti la stessa origine del fenomeno, secondo l’autore, a determinarne la natura confusa.

Considerato con orgoglio come un prodotto italiano figlio delle associazioni caritatevoli del Medioevo, il concetto risale invece al secolo scorso: una “debole invenzione” di alcuni ricercatori americani degli inizi degli anni Novanta. Tale vacuità teorica è il punto di partenza del libro che non intende essere una critica indistinta delle Onlus, molto di moda negli ultimi anni, ma piuttosto uno stimolo al dibattito e alla loro riscoperta.

Com’è possibile che entità di fatto simili ad imprese private ma rese più competitive grazie alla falsa caratterizzazione convivano con le organizzazioni che si occupano della parte più debole della società? A questo proposito Moro cita dati disponibili a tutti, ma spesso ignorati, con l’intento d’individuare gli attributi e restituire i privilegi del terzo settore a chi davvero ne segue i principi e di mettere in luce la mercatizzazione delle imprese cosiddette “sociali”.

“Malgrado l’intenzione di riconoscere e premiare le attività svolte rispetto ad altri elementi distintivi, ciò che la legge privilegia sono in realtà requisiti che rientrano perfettamente nel tradizionale, ossessivo, formalismo giuridico che soffoca il nostro paese, e che poco o nulla hanno a che fare con ciò che viene realizzato – spiega Moro. “Nel caso degli enti di tipo associativo – continua l’autore – non c’è nemmeno una delle caratteristiche definitorie che riguardi l’attività svolta; nel caso delle Onlus ce n’è, più o meno, una su dieci, per quanto importante. Le cose davvero rilevanti, è evidente, sono quelle che stanno scritte negli statuti e in altri documenti ufficiali, non quelle che avvengono nella realtà”.

E aggiunge: “Anche sul piano dei controlli, non solo in linea di fatto ma anche in linea di principio, ciò che è previsto sono controlli sui bilanci, non sul tipo di attività, o sulla sua effettiva utilità sociale e, soprattutto, sulla sua efficacia”.

Moro individua un secondo elemento critico: certi tipi di enti (come le associazioni di volontariato o, a certe condizioni, le associazioni di promozione sociale) sono riconosciuti come Onlus a prescindere da quello che fanno: sono “Onlus di diritto”. Ciò significa che un’organizzazione di volontariato che promuove tornei di scacchi (non per disabili, non per migranti, non per persone in difficoltà) è riconosciuta come una Onlus, mentre un’associazione che difende i diritti dei clienti delle banche che non riescono a pagare i mutui no. “Questa idea che qualcuno sia ‘di utilità sociale’ di diritto e non che si riconosca la utilità sociale, a parità di condizioni, come un dato di fatto, è fuori di ogni logica, tranne, forse, quella impazzita dell’amministrazione italiana – sottolinea l’autore. “Lo stesso meritorio tentativo di introdurre un principio di distinzione all’interno del settore non profit in base al valore sociale dell’attività svolta risulta in questo modo vanificato – continua. “Ciò è aggravato dal fatto che la definizione di ‘utilità sociale’ contenuta nella normativa sulle Onlus oscilla tra il riferimento a settori di attività – considerati di per sé utili socialmente – e quello alla condizione dei beneficiari delle attività stesse”.

Secondo il sociologo, c’è un terzo elemento da menzionare: l’elenco delle attività che un’organizzazione deve svolgere per essere riconosciuta come Onlus ha un evidente sapore assistenzialistico e un po’ arcaico. Più che di “utilità sociale”, come recita l’acronimo, qui la logica sembra quella della assistenza e della beneficenza, precedente alla istituzione dello stato sociale nel corso del Novecento in tutta Europa.

Moro punta il dito anche contro l’eccessiva esternalizzazione di servizi pubblici verso cosiddette imprese non profit. “Oggi una fetta elevatissima del sistema del welfare e della sua spesa è gestita in convenzione, un’esagerazione abnorme. Una scelta che non fa bene né agli utenti dei servizi, come ha dimostrato il caso del campo rifugiati di Lampedusa, né alla società”.

Pertanto il volume mette all’indice proprio quel non profit di “approfittatori” che cela uno spazio “in cui un po’ tutto è possibile, dai ristoranti alle palestre, dalle cliniche alle polisportive con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali, conflitti di interesse, elusione fiscale, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri più poveri, ‘buoni’ che legittimano vantaggi per i “cattivi’”.

Come superare le ambiguità? Il libro, nella sua concretezza, avanza una proposta: un sistema di benefici e vantaggi “in progressione”, con un nuovo sistema di classificazione (imprese, enti quasi-pubblici, organizzazioni della produzione e del lavoro, istituzioni di supporto, enti di ricerca, organizzazioni del capitale sociale, organizzazioni di attuazione costituzionale) che deve premiare la contiguità all’interesse generale.

SCHEDA – Giovanni Moro, “Contro il non profit”, Laterza, ISBN 9788858111475.