LA NOTA / Le “ambiguità” sulla ricchezza degli italiani

Banca d’Italia e Istat hanno congiuntamente sfornato, nei giorni scorsi, interessanti dati sulla ricchezza degli italiani. Il quadro che emerge è in chiaroscuro. In sostanza risultiamo un popolo nel complesso abbastanza agiato: l’ammontare della ricchezza complessiva – tolti i debiti e ignorati molti beni mobili – sfiora infatti i 10 mila miliardi di euro, esattamente 9.700 miliardi. Ma – questo il rovescio della medaglia – la maggior parte del patrimonio è costituito dalle proprietà immobiliari (circa 5.700 miliardi di euro), il cui valore è però in costante discesa, e dai circa 1.300 miliardi che giacciono nei conti in banca, anche in questo caso un “tesoretto” improduttivo e scalfito da tasse ed oboli sempre più pesanti a fronte di interessi zero. Quindi poco meno dei due terzi di tutta la ricchezza è non solo statica, ma in fase di lento logoramento.

In particolare non è difficile prevedere che il valore delle abitazioni continuerà a decrescere. Il motivo? L’offerta di immobili sul mercato aumenterà sempre più, causa la crisi ed il fatto che si continui a costruire (spesso più per ragioni finanziarie che di mercato), a fronte di una richiesta in forte calo, causa non solo il ristagno economico, la variazione della composizione familiare e il frantumarsi dell’idea di casa vista come investimento o sicurezza psicologica, ma soprattutto il decremento della popolazione, che sarà ancora più rilevante nei prossimi anni. Non a caso specie nei paesetti montani svuotati dall’emigrazione, sia sull’Appennino sia sulle Alpi, le case d’origine costituiscono sempre più un “problema” per le nuove generazioni: mantenerle ha un costo sempre maggiore, anche per le tasse, e non si riescono a vendere.

Più difficile prevedere quanto durerà ancora la tradizionale propensione al risparmio da parte degli italiani. Una sobrietà frutto sia dell’antico retaggio della cultura contadina sia delle preoccupazioni legate alla fase storica: il risparmio si segnala, ovviamente, come un fattore positivo – analogamente alla bassa propensione all’indebitamento da parte degli italiani – perché rappresenta un ancoraggio di stabilità finanziaria. Ma bisognerà capire quanto resisteranno ancora nel tempo queste “virtù”, intaccate in particolare dalle “tentazioni” consumistiche sempre più spinte.

L’altro terzo della ricchezza globale degli italiani è costituito dal patrimonio finanziario – circa tremila miliardi di euro – che è in crescita costante dal 2011. E’ composto per lo più da obbligazioni, azioni e risparmio gestito (fondi, prodotti assicurativi, ecc.). Tale quota sul totale, osserva più di un analista, è nelle mani soprattutto di una minoranza agiata. Dal momento che soltanto un quarto delle famiglie ha attività finanziarie differenti dal semplice conto in banca, si può dedurre che la ricchezza italiana che cresce è nelle mani del 25 per cento più ricco del Paese.

Tale quadro, al di là delle scontate analisi sociali sull’accentuarsi delle differenze, ci offre la possibilità di trarre qualche conclusione pure sul fronte imprenditoriale. Infatti, in tale contesto di “ricchezza finanziaria in crescita” possiamo collocare certamente molti imprenditori, ovviamente quelli più bravi, che riescono – a dispetto della stagnazione – a produrre utili e a tenere alta la bandiera del “made in Italy” in tanti settori, dall’agroalimentare alla moda e agli accessori, dall’arredamento al design. C’è, però, una criticità: poco sostenuti dai provvedimenti governativi, carenti in particolare sul sostegno all’innovazione, gli imprenditori italiani rischiano poco in ambito di investimenti. Meglio, quindi, collocare gli utili in titoli e conti vari, anziché rischiare di “bruciarli” in investimenti diretti ad aggiornare gli strumenti di produzione, ad esempio nuovi impianti, macchinari, software.

La conferma viene dai numeri in costante calo del patrimonio in beni reali delle imprese: è sceso dai 3.341 miliardi di euro del 2012 ai 3.102 miliardi del 2017.

E’, insomma, davvero un peccato che il vero volano della crescita, cioè quel tessuto imprenditoriale “sano” che l’indagine della Banca d’Italia colloca tra i meno indebitati del mondo avanzato, preferisca garantirsi un comodo orticello piuttosto che contribuire, anche rischiando, ad incrementare il benessere comune. Atteggiamenti a volte giustificabili a fronte degli scarsi sforzi del governo nel sostenere il mondo produttivo.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)