LA NOTA / I tre anni (fallimentari) di Virginia Raggi

L’antipasto più aspro l’ha offerto Virman Cusenza, direttore del Messaggero. In un lungo editoriale, che si apre con “Morte di una città”, il giornalista parla di “catastrofe ormai inarrestabile”. Pur non risparmiando luoghi comuni e pontificando da un pulpito che non è l’istituto delle Orsoline, Cusenza compila l’elenco: “La caduta di Roma la tocchiamo con mano uscendo di casa ogni mattina: ci inghiottono le voragini stradali, montagne di rifiuti ostruiscono spazi pubblici destinati alla vivibilità”. E via a ricordare gli incendi dei bus, la rovinosa caduta delle scale mobili della metro, gli alberi sulle auto, le panchine divelte, le ciclabili interrotte, il suk del commercio straccione tra camion bar di ritorno, ambulanti inamovibili, bancarelle che ostruiscono il passaggio e oscurano le meraviglie di Roma. A ciò s’aggiunge il dissesto delle aziende partecipate, tra Atac sull’orlo del fallimento e ormai sotto concordato e Ama inabile a svolgere il ruolo di pulizia.

Tutto vero. Maledettamente vero. E ossessivamente corale, in una sorta di collettivo e costante tiro al bersaglio contro una città. Lamentele che partono dalla un po’ scontata notificazione del politico d’opposizione per trovare conferma tra gli utenti del bus sovraffollato o nelle denunce dei tanti comitati di quartiere, spesso diventati bacini elettorali opportunamente flessibili.

C’è una tale frustrazione in giro per la città, che non si ha nemmeno più la vitalità per prendersela con il primo cittadino. Per la Raggi, infatti, l’aggettivo più ricorrente che le viene affibbiato, mitigato verso il compassionevole, è “povera”. In sostanza, racchiude il più classico “chi gliel’ha fatto fare”, dal momento che c’è una diffusa consapevolezza: ha ereditato una città appestata, preda di opprimenti illegalità e di ataviche inefficienze. Passi pure l’inesperienza, ma l’aver sbandierato la discontinuità, il cambiamento e l’onestà quali ricette per rianimare il moribondo ha finito per seminare disillusione, dopo aver raccolto tante speranze di un popolo romano ormai avvezzo al peggio, specie dopo lo spregiudicato veltronismo del “panem et circenses” e degli “amici degli amici”, la parentesi nerissima di Alemanno (con altri “amici degli amici”), il davvero sventurato Ignazio Marino colpito, invece, proprio dal fuoco amico. Anni in cui il malaffare è cresciuto parallelo alle ipocrisie nei sermoni pubblici; le reti dei Casamonica e degli Spada hanno intrappolato molti pezzi pregiati di città; molte attività commerciali sono diventate “lavanderie” al servizio delle varie mafie d’importazione; il solidarismo e il business sono andati di pari passo, pregni di benedizioni spirituali e politiche; le parentopoli si sono moltiplicate a dismisura con regie di associazionismo, sindacalismo, sezioni di partito.

Oggi il vero problema, al di là della plateale incapacità mista a supponenza di molti amministratori pentastellati, è proprio nell’aver condotto Roma, la città della “grande bellezza”, in punti sempre più bassi. Laddove si è facili prede di un tiro al bersaglio quotidiano. Addirittura internazionale. Le immagini del degrado materiale, forse meno peggiore di quello etico, fanno spesso il giro del mondo, finendo sulle testate giornalistiche più blasonate. Persino nella stessa città dove da anni si assiste al fiorire di siti internet che individuano e rilanciano – in un divertimento al limite del masochismo rafforzato dai social – gli aspetti peggiori offerti dalla città. Il cinghiale in periferia s’alterna con il taglieggiatore di biglietti nelle stazioni della metropolitana, l’emarginato che fa i suoi bisogni a fianco delle Mura Aureliane sprofonda in una sorta di mistura con i più maestosi cumuli d’immondizia al di fuori dei cassonetti, dove è ormai abituale scaricare gli elettrodomestici per risparmiare i 30 euro del trasporto alla discarica pubblica.

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