LA NOTA / Alla ricerca del “gruppo sociale”

imprenditoriAl di là dell’ormai statica e consumata litania sull’efficacia o meno di una manovra che, a fronte dei diktat europei e dei mercati, rischia di vanificare la portata dei due principali provvedimenti (reddito di cittadinanza e “quota 100”), sui quali tra l’altro abbiamo a più riprese espresso le nostre perplessità per la loro natura prettamente assistenziale e clientelare, crediamo che un tema serio e più generale in questa fase di totale incertezza e di ulteriori nubi all’orizzonte sia quello dello “sfaldamento” della società italiana nei suoi fattori storici di strutturazione e di collante. Sembrerebbe un argomento al solo uso delle analisi dei sociologi. Invece per comprendere dove stiamo andando è quanto mai necessario tornare ad interrogarsi su cosa stiamo diventando.

La crisi, in sostanza, non è solo economica. C’è un vuoto di rappresentanza che si riflette sui partiti, sui sindacati, sugli organismi di mediazione, sui gruppi sociali, sull’associazionismo, persino sulle più tradizionali realtà religiose che negli anni passati hanno avuto ruoli centrali nell’aggregazione giovanile, nella formazione o nel lavoro. E’ in questo quadro di scuciture, di mescolamenti e di nuove tensioni che è possibile individuare gli embrioni dei fenomeni nuovi e dirompenti che hanno trovato parziale legittimazione nelle urne elettorali dello scorso 4 marzo.

L’intolleranza per la politica in genere e per i Palazzi europei visti come estranei alla nostra realtà, l’insofferenza verso i mutamenti apportati dall’immigrazione, la paura per la progressiva precarizzazione dell’intera esistenza costituiscono i nuovi segni distintivi di fette crescenti di elettorato, mentre chi resta estraneo a tutto ciò non riesce ad animare una controproposta seria, in grado di maturare nelle pieghe più profonde e disilluse della società.

E’ proprio la parcellizzazione sociale, il dissolvimento dei gruppi distinti e coesi, a doverci far preoccupare più del debito o dello spread.

E’ allarmante, ad esempio, la riduzione di quel “ceto medio” che per decenni, specie dal dopoguerra in poi, ha costituito l’ossatura del nostro Paese, assicurando e beneficiando della diffusione del benessere, pur con tutte le storture del caso. E sta mancando l’apporto propositivo della tanto vituperata borghesia, quella “classe di mezzo” che – come ben evidenzia Marcello Veneziani – “per troppi anni ha vissuto sotto falso nome, si è nascosta quasi vergognandosi di essere borghese, visti gli attacchi che riceveva da sinistra, ma anche un po’ da destra, dai fascisti e dai cattolici”. Perché, come ci ricorda Giuseppe De Rita, patron del Censis, la borghesia ha coscienza di sé e delle sue responsabilità sociali, il ceto medio no, ripiegando nell’egoismo.

Insomma è stata demolita la vecchia, rispettabile, decorosa borghesia, status sociale e culturale, che ha incluso quella “borghesia di Stato” che ha contributo a ricostruire dalle sue macerie belliche il nostro Belpaese nelle scuole, nei ministeri, nelle amministrazioni locali; un mondo dolosamente annullato attraverso la clientelare moltiplicazione dei centri di spesa, con tutte le nefaste conseguenze.

Ma si è disgregata anche la classe operaia, un tempo fattore di dinamicità sociale, fucina di idee, talvolta protagonista dell’ascensore sociale intergenerazionale. Il proletariato si è sgretolato nel sottoproletariato, nella sottooccupazione, nell’emarginazione, nel risentimento, nella rabbia un po’ pavida che spesso si banalizza in rete.

Oggi le rare e fluttuanti istanze di rinascita, che nascono dal basso, si muovono su logiche trasversali. Le più operose cercano nuove condivisioni fondate su interessi, territori, esigenze comuni. Il caso dei “Sì Tav” è eloquente.

In questo panorama quanto mai frastagliato, sono proprio gli imprenditori ad avere l’opportunità e il privilegio di presentarsi come l’unico gruppo sociale organizzato. Ecco perché nel ruolo della classe imprenditoriale, specie in questo preoccupante clima d’incertezza, sono riposte molte attese e speranze da parte di molteplici ambienti del nostro Paese, anche quelli che hanno dato fiducia ai partiti al governo. Da questo gruppo sociale deve emergere una visione chiara e possibilmente alternativa rispetto alla manovra in atto per il futuro d’Italia, in cui le funzioni dell’impresa e del lavoro (e non delle rendite di cittadinanza) tornino al centro delle politiche di governo.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)