Emergenza Covid: la storia ci ricorda il “Piano Fanfani”

L’emergenza sanitaria del coronavirus, per la quale ancora non si vede la luce in fondo al tunnel, tra l’altro a livello globale, con il passare delle settimane sta accentuando anche nel nostro Paese i problemi sociali, soprattutto nel nostro Mezzogiorno. I drammi più marcati riguardano in particolare coloro che lavoravano “in nero”, spesso “alla giornata”, che in quanto socialmente non riconoscibili, sono privi di qualsiasi paracadute economico tra quelli messi in campo dal governo per lavoratori dipendenti (cassa integrazione) e autonomi (bonus).

In queste ore dagli enti locali stanno giungendo grida d’allarme: occorre intervenire con urgenza per prevenire un’apprensione sempre più diffusa, che potrebbe intrecciarsi con sovvertimenti alimentati dalla criminalità organizzata. Un riferimento storico, pur con le dovute differenze, potrebbero essere i moti di Reggio Calabria del 1970.

In termini più estesi è necessario, da subito, pianificare i passi da compiere per la ripresa economica. Considerati i tempi non brevi e gli ingenti danni nel tessuto produttivo, l’auspicato “rimbalzo” nei consumi non potrà certamente rappresentare l’unica soluzione per uscire dalla crisi.

Dal momento che la storia è maestra di vita, crediamo sia importante prendere in esame le grandi depressioni dell’ultimo secolo e le misure messe in campo per uscirne. Viene in mente, ad esempio, il piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente statunitense Roosevelt tra il 1933 e il 1937, che risollevò gli Usa dal celebre crollo del 1929. Per rispondere ad una drammatica crisi, si adottò una politica di grandi investimenti.

Analogamente, subito dopo il secondo conflitto mondiale, nel nostro Paese si adottò il cosiddetto “Piano Fanfani”, che contribuì non poco a creare le condizioni per il boom economico tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.

Con un Paese distrutto dalla guerra, l’economista Amintore Fanfani, all’epoca ministro del Lavoro, affrontò contemporaneamente il problema della disoccupazione e quello della ricostruzione sociale attraverso un grande piano di sviluppo edilizio.

L’iniziativa, nota come “Ina Casa”, partì nel 1949 e durò per sette anni; poi – visto il successo – rinnovata per altri sette, fino al 1963.

Il piano da 300 miliardi di lire venne finanziato attraverso un “sistema misto”, con la partecipazione solidale dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti. A questi ultimi venne praticata una piccola trattenuta sul salario mensile, l’equivalente di “una sigaretta al giorno”, come recitava la propaganda dell’epoca.

L’idea di Fanfani, appoggiata da molti intellettuali, architetti e imprenditori (tra cui Olivetti), ha rappresentato non solo un volano per l’occupazione (40mila posti di lavoro fissi in 20mila cantieri) e per l’economia in genere, ma anche un esempio di ricucitura sociale attraverso quartieri dignitosi, fortemente identitari, con nuovi e importanti servizi, e di vera e propria “carità istituzionalizzata” su scala nazionale per venire incontro ai bisogni dei più emarginati. Non solo case, ma anche spazi comuni, giardini, asili, scuole, chiese, servizi sociali di assistenza, case del popolo. Su un totale di 17mila architetti e ingegneri italiani attivi in quegli anni, circa un terzo fu coinvolto in questa esperienza.

Pur con immancabili zone d’ombra, il “Piano Fanfani” resta una delle pagine più virtuose della nostra storia, oggi riconosciuta anche da forze politiche ideologicamente distanti dalle posizioni di “economista cattolico”, con grande attenzione al sociale, del politico aretino. Del resto Fanfani aveva scritto il testo “Colloqui sui poveri”, dimostrando grande attenzione ai problemi sociali e interesse per le teorie keynesiane mediate dal solidarismo cristiano.

Certo, i tempi sono differenti. Allora per contribuire all’iniziativa di Fanfani, seppur in forma marginale, si utilizzarono parte dei soldi americani del Piano Marshall (circa un miliardo e 200 milioni di dollari sul totale di dodici). Ma quello spirito d’iniziativa resta qualcosa di grandioso che andrebbe replicato appieno. Specie oggi, con il coronavirus sta rappresentando una calamità dalle proporzioni immani.

A differenza di un conflitto bellico, per fortuna, i beni materiali sono risparmiati. Ma lo spirito di quel “Piano Fanfani” può certamente essere utilissimo per ripartire. Occorrono interventi centralizzati che immettano grande liquidità nel sistema, non solo per far fronte all’emergenza immanente, ma nell’ottica di una pianificazione lunga, strutturale, di sistema. La crisi deve costituire un’opportunità di rilancio in termini nuovi, facendo fronte anche a quei tanti problemi che l’Italia palesava prima di questa emergenza: occorre recuperare unità (cioè basta con le polemiche), solidarietà (che non è assistenzialismo elettorale), ottimismo (che non è retorica), spirito d’impresa (liberato dai lacci della burocrazia). Bisogna ricostruire “comunità di cittadini” inserite in un’economia reale, di qualità, capace di recuperare il valore etico del lavoro. E’ necessario tener conto dell’impatto ambientale, perché se non si corre ai ripari, parte delle prossime emergenze potrebbero venire anche da questo fronte. E se il “Piano Fanfani” era incentrato prevalentemente sull’edilizia, oggi si potrebbe ricreare una task-force basata sulla diffusione delle nuove tecnologie, ad esempio nella “burocrazia” italiana, purtroppo sempre indietro rispetto ai Paesi più avanzati, ma anche proprio nel patrimonio edilizio (con finalità di efficientamento) o nella prevenzione dei danni conseguenti alle calamità naturali.

Insomma, mai come in questi giorni avvertiamo l’importanza di un “ruolo pubblico” che sappia saldarsi con la funzione indispensabile svolta dalle comunità imprenditoriali, dalla fornitura di beni alimentari ai dispositivi medici, e da quelle sanitarie-scientifiche.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)

(da Wikipedia, pubblico dominio)