Dallo Sdo ai Pgtu, le occasioni perse di una politica screditata

Quanti cittadini romani hanno cognizione che da oltre un anno la loro Capitale è diventata anche città metropolitana? Se ne sono accorti? Ne sanno qualcosa?

A diffondere questa notizia ha contribuito più di tutti – ironia della sorte – il comico Checco Zalone (siamo in Italia…) con il suo ultimo film “Quo vado”. Il protagonista, un impiegato orgoglioso del suo posto fisso in un’amministrazione pubblica, è l’unico a rischiare la scrivania per la paventata abolizione delle Province. Ma, appunto, siamo in Italia e lui mantiene il posto (lo stesso) in quanto la sua Provincia diviene “Città metropolitana”. Cioè, alla Tomasi di Lampedusa, cambia tutto per non cambiare alcunché. Una stessa minestra, però, sempre condita di belle parole e di una valigia piena di sogni.

Questa parentesi cinematografica è una premessa d’obbligo per affrontare i temi urbanistici della nostra città. Perché, se non manca mai un corollario di piani, progetti, mappe, acronimi suggestivi e quant’altro offra l’architettura in termini di carte e cartuccelle, nel contempo tutto rimane nei cassetti (alle volte, per fortuna), si realizza pochissimo e quel poco anche male e con una montagna di soldi. Insomma, dietro molti progetti c’è poco interesse per i cittadini e per la città, tanto per quelli personali.

Il paragone con l’estero, poi, è impietoso.

Proprio la “Città metropolitana” costituisce un aspetto esemplare di questa incapacità operativa. Cioè, mentre all’estero le grandi metropoli godono di un’autonomia amministrativa e decisionale forte, con sindaci in grado di rapportarsi direttamente con i premier nazionali (vedi Parigi o Londra, tanto per non andare lontano), da noi ogni livello amministrativo è ingessato sia da una burocrazia volutamente immobilizzante, mista ad un corpus legislativo quasi sempre confuso sul fronte delle competenze.

I principali passi per snellire la macchina – si pensi soltanto alle riforme Bassanini o alle spinte federaliste – sono di fatto naufragati. I piccoli feudi elettorali contano più del bene comune: se non mi muovo, non mi creo inimicizie.

Così anche la carta della “Città metropolitana”, che avrebbe dovuto garantire più forza operativa alle metropoli e migliorarne la governance, sta dimostrando tutti i suoi limiti, con deleghe non ancora chiare e ritardi su tutti i fronti. Del resto, mentre all’estero “Città metropolitane” sono, oltre alle Capitali, metropoli reali come Marsiglia o Lione, seconda e terza città della Francia con distretti da quasi due milioni di residenti, noi abbiamo promosso ben quattordici capoluoghi di provincia (finora), tra cui Reggio Calabria e Cagliari (designata solo a gennaio 2016). E non dimentichiamoci che mentre, da oltre un decennio, si parla di abolire le Province, ne abbiamo promosse un’altra ventina.

Se noi abbiamo Messina “Città metropolitana” da poco più di 500mila abitanti con l’intera provincia, Berlino, che di abitanti ne ha quasi otto volte di più, ha il primo cittadino quale “borgomastro” di una vera e propria città-stato, con poteri di intervento sul territorio paragonabili a quelli del Cancelliere. E Londra, che di abitanti ne ha quasi nove milioni, è distretto e contea, con lo statuto della “Greater London Authority”.

Roma, nonostante con i suoi 1.285 chilometri quadrati sia seconda per estensione soltanto proprio alla capitale inglese, è governata come una piccola provincia, con assetti istituzionali spesso degni del medioevo, ad esempio con i Municipi costruiti come si delineavano gli Stati africani con un tratto di matita su una mappa. Il VII, che dal centrale piazzale Appio si spinge per chilometri fino a quartieri periferici dai nomi sconosciuti ai più, sotto ai Castelli romani, è emblematico di tali mostruosità urbanistiche.

Negli uffici pubblici romani, salvo eccezioni, regnano pressappochismo e progetti asfittici sui quali ci si accapiglia senza ritegno. O ci si mette d’accordo. Merito e competenza sono termini spesso estranei alle “stanze dei bottoni”. Le conseguenze di tale quadro, tra degrado estetico e lenta agonia economica, sono sotto gli occhi di tutti.

La “governabilità ingessata” determina vuoti d’azione che spesso vengono riempiti dai piccoli, ma diabolici, poteri alternativi: scaltri faccendieri che si muovono spregiudicati tra business finanziari, immobiliari, commerciali, fino al puro malaffare trasversale come nel caso dei solerti “funzionari” di Mafia capitale, alcuni dei quali provenienti proprio dagli uffici ai vertici del Comune.

Del resto questa è la stessa città dello scandalo della Banca Romana, ex istituto di credito dello Stato Pontificio con il potere di battere moneta, finanziatrice dei primi “palazzinari” che edificarono il quartiere Prati. La banca, come noto, fallì definitivamente nel 1893 mettendo in luce una gestione non dissimile da quella dell’odierna Banca Etruria, con il coinvolgimento di personaggi di primo piano della nostra storia patria, da Giolitti a Crispi, fino al Re Umberto I con le sue numerose amanti.

Lontano ovviamente da nostalgie storiche, tuttavia se gli architetti (bravi) degli anni Trenta hanno paradossalmente goduto della retorica fascista tesa a rilanciare l’immagine di Roma – Eur o Garbatella restano quartieri con un’anima e via dei Fori Imperiali ha una sua logica pur con lo scempio degli abbattimenti medievali – dal dopoguerra generazioni di immobiliaristi e di politici hanno costantemente inondato di cemento le periferie, senza una seria pianificazione e al netto della razionalità, profanando per sempre il suggestivo scenario dell’agro romano e spesso speculando su ogni area in loro possesso. “La Roma post-fascista non ha mai avuto un piano regolatore” attesta giustamente l’economista Gianfranco Polillo. Per averne uno, fallito miseramente, bisognerà attendere il 1962: ciò che è stato fatto in quegli anni Sessanta, abbagliati dal boom economico, è evidente a tutti i visitatori della Roma fuori dal centro storico. Proprio in quel periodo, tra l’altro, la politica “ingessata” ha chiuso gli occhi sul diffuso abusivismo fai-da-te realizzato soprattutto dall’immigrazione meridionale, che ha fatto crescere squallidi e invivibili quartieri lungo la fascia più esterna, per tanto tempo senza infrastrutture.

Emerge, quindi, un altro nodo del nostro ragionamento: attenzione ai tanti progettisti, alle “tavolate”, ai “Tavoli di progetto”, agli “Stati generali”. Troppi documenti urbanistici hanno finito per moltiplicare i danni e per accentuare i fallimenti.

Si pensi, tra i tanti, al famoso “Sdo”, il Sistema direzionale orientale di cui s’è parlato per almeno trent’anni come panacea per decongestionare il centro storico. Avrebbe dovuto rilanciare quartieri degradati come Pietralata, Centocelle, Tiburtino e Casilino. Addirittura si sarebbe dovuta trasferire all’Eur la “cittadella della politica”, abbandonando le sedi storiche del Parlamento. Il lascito? Inutili strumenti programmatici, diverse varianti, abusi edilizi, un’enorme montagna di miliardi di lire dello Stato per l’acquisizione di aree, le solite commissioni superpagate, un lunghissimo iter per la sola Pietralata che ancora non vede la luce. Insomma, un costoso fallimento.

Storie di altri quartieri non sono migliori. Straordinari progetti affidati ad architetti autoreferenziali, omaggiati dalla politica, i quali hanno finito per firmare quartieri-ghetto con pochi precedenti nella storia urbanistica italiana. Altre realizzazioni sono rimaste a lungo incompiute: esemplare il caso di Spinaceto

Anche l’ultimo piano regolatore, quello del 2008, al centro di una famosa puntata di “Report”, brilla per le parole ma per poco altro.

Se oggi pensiamo a quanto realizzato a Roma per la mobilità dal dopoguerra a oggi ci vengono in mente soprattutto il Grande raccordo anulare e la tangenziale. Per il primo, c’è chi vorrebbe farlo pagare come un’autostrada. E prima o poi lo faranno. Per la seconda, c’è chi vorrebbe abbatterla.

Gli ultimi capolavori? I Pgtu, cioè i Piani generali del traffico urbano. Anche qui tante belle parole che fuoriescono dalla valigia dei sogni.

Quello del 1999 ci avrebbe dovuto consegnare una città più sostenibile. C’ha lasciato in eredità principalmente i parcheggi con le strisce blu (a pagamento), nonostante i quali la città ha un deficit di diversi miliardi di euro. E il sistema Tpl, anche questo utile principalmente per fare cassa. Per il resto l’utilizzo del trasporto pubblico è rimasto sotto il 30% (quota mantenuta soprattutto grazie ai cittadini extracomunitari), il tasso di motorizzazione romano è rimasto più che doppio rispetto a Parigi e Londra, le corsie preferenziali sono ferme sui 100 chilometri, l’offerta di bike e car sharing è ancora decisamente marginale. Il nuovo Pgtu, approvato nel 2014, rilancia obiettivi ambiziosi in termini di trasporti pubblici, corsie preferenziali, piste ciclabili, ecc. Ma, siamo certi, farà più miracoli la crisi, che induce tanti a rinunciare all’auto, che non i proclami di una politica ormai screditata dai fatti.Pianotraffico