Da Nilla Pizzi a Mahmood, Sanremo è la nostra storia

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Quando si parla di Sanremo, è come discutere di calcio. O di cucina, oppure di politica. Diventiamo tutti competenti. Si possono – o addirittura “si debbono” – dichiarare le proprie preferenze, un po’ come per i gusti del gelato: meglio la melodia classicheggiante del Volo, già vincitori di Sanremo nel 2015, o lo stile intimistico di Ultimo, il più votato dal popolo della tv? L’inebriante Loredana Bertè, acclamata dal pubblico dell’Ariston, o l’esotico Mahmood, spinto dai (presunti) intellettuali delle giurie “di qualità”? Meglio le canzoni “domestiche” su nonni, mamme, padri, figli, o quelle “socialmente corrette” su carcerati, periferie, poveri disgraziati, che si candidano a sicuri premi della critica?

Se il necessario carico di conformismo, le regole convenzionali, l’immancabile perbenismo da abiti di sartoria assicurano il costante successo della rassegna, l’inevitabile strappo anticonformista ne garantisce la colatura di caramello, l’immancabile cialda, la ciliegina all’apice.

La storica missione di Sanremo, affidabile specchio della società italiana, è proprio quella di far emergere e rappresentare le diverse sfaccettature della nostra quotidianità. Meglio se contrapposte tra loro. Il figlio di papà e il coatto della periferia, l’arruffato e miope benpensante e il colorato alternativo, la frenesia meneghina di Claudio Bisio e la bonaria romanità di Claudio Baglioni & Virginia Raffaele che cantano “You never told me” di Alberto Sordi.

Tale straordinaria molteplicità dell’offerta sanremese è congenita nella formula stessa della kermesse, stretta tra valori e disvalori. E nell’eterna difficoltà di collocare la mercanzia nelle due categorie.

Ecco perché le polemiche, anche le più sterili, faranno sempre parte dello show. Il peso delle tre diverse giurie, le recriminazioni per un primo o un secondo posto, addirittura i richiami all’italianità di un cantante (come se le origini albanesi di un’Oxa o i natali vietnamiti di un Cocciante ne possano inficiare le qualità vocali), è tutto materiale che sarà presto sommerso dall’armonia delle sette note e dalla poesia – a volte cruda – dei testi. Nelle due edizioni di Baglioni, non manca il materiale pregevole.

Nell’eterna Sanremo – italianissima nel cambiamento che non modifica nulla, copyright Tomasi di Lampedusa – è proprio la versatilità apparente a farla da padrone.

Non a caso, curiosando nella preistoria della manifestazione canora, l’immagine dell’ambivalenza la troviamo già personificata nell’interprete sanremese per antonomasia, Nilla Pizzi, vincitrice delle prime due edizioni del festival e addirittura l’unica – probabilmente resterà tale – a conquistare contemporaneamente il primo, il secondo e il terzo posto (nel 1952). Una sorta di triade da Spirito Santo. L’artista emiliana, a cui Luca Goldoni regalò l’appellativo di “regina della canzone italiana”, soddisfaceva due target solo esteriormente contrapposti: le cappe moralistiche di quell’Italietta cattolica ma pruriginosa del dopoguerra e i machi latini, cultori di immancabili slanci passionali: durante il fascismo alla Pizzi fu addirittura vietato di parlare in radio a causa della voce troppo sensuale, mentre il noto cantante Gino Latilla tentò il suicidio per lei. Davvero altri tempi.

Tuttavia, se il ricordo della Pizzi è legato a motivetti musicali apparentemente spensierati, in realtà furono proprio le sue canzoni ad aprire da subito la lunga stagione dei veleni. Ad esempio, “Papaveri e papere”, tradotta in ben quaranta lingue, racchiude frecciate ai politici democristiani dell’epoca, appunto i “papaveri”, e con fare antesignano rivendica il ruolo della donna spesso degradato a “papera”. Anche la celebre “Vola Colomba”, illusoria canzone d’amore, s’inserì invece, con chiari riferimenti nel testo, nella polemica storico-politica su Trieste italiana: San Giusto è la cattedrale di Trieste, il “vecio” è il padre in dialetto friulano, il “cantiere” è quello navale della città.

La storia del festival è quindi storia italiana.

Sanremo dei primi anni ha ben rappresentato il dopoguerra con la primaria esigenza del ritorno alla normalità, ottimamente effigiata dalle quattro vittorie del “reuccio” Claudio Villa. E nel 1958 fu Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu” a suggellare l’apertura di una nuova fase “spensierata” per il nostro Paese, quella del boom economico, dei dischi che si vendevano a milioni, della creatività liberata, degli scimmiottamenti d’oltreoceano, delle canzoni sfornate non per accompagnare sentimenti moraleggianti, ma per far ballare e divertire. Vengono in mente, tra i tanti, gli “urli” di Tony Dallara, i ritmi tarantati di Little Tony, le cadenze suadenti di Bobby Solo (la sua “Una lacrima sul viso” vendette quasi due milioni di dischi), i molleggi di Adriano Celentano. Anche le interpreti femminili s’impratichirono dell’arte di dare scandalo: la giovanissima Gigliola Cinquetti nel 1964 confessò sonoramente di “non avere l’età”, finendo con il vincere anche l’eurofestival. L’Italia dei Guelfi e dei Ghibellini, o dei Bartali e Coppi, si divise a lungo tra due esempi di sensualità emiliana ben oltre il metro e settanta: la rossa e felina Milva e la bionda aquilina Iva Zanicchi, quest’ultima con tre vittorie al festival nel curriculum ricco di anche di esperienze parlamentari.

L’Italia diventata potenza internazionale s’è quindi aperta ai cantanti stranieri in gara, da Paul Anka a Gene Pitney, da Ben E. King a Louis Armstrong, da Rocky Roberts a Stevie Wonder. Provincialismo e universalismo hanno trovato un’inaspettata quadra sul palco della città dei fiori.

Le ideologie di fine anni Sessanta, in questa armonia di sensi, poterono soltanto sfiorare l’inossidabile Sanremo: ci fu il suicidio di Tenco nel 1967, le apparizioni dei primi gruppi beat per l’infelicità dei barbieri, la vittoria di un cantautore malinconico ma di razza come Sergio Endrigo nel 1968 (a proposito di abbagli e di ingiustizie, quell’anno arrivò addirittura ultima la splendida “La voce del silenzio”). Ma bastarono i gorgheggi di Orietta Berti per rimettere tutto a posto.

Attraversata (quasi) indenne la crisi, il più nazionalpopolare dei festival ha riproposto il suo multipolarismo, riservando lo stesso palcoscenico sia ai Ricchi e Poveri, ad Al Bano & Romina, a Toto Cotugno, a Pupo, a Christian, con turnee assicurate in Sud America, sia ai super ospiti internazionali degli anni Ottanta, passerelle tra i fiori liguri a cui non si sottrassero persino i Kiss (nel 1981), i Bee Gees e Gloria Gaynor (1982), Peter Gabriel e Toquinho (1983), i Queen (1984), i Duran Duran (1985), i Depeche Mode (1986), Whitney Houston, gli Europe e The Smiths (1987).

Sanremo, insomma, è stato sempre il tutto e il contrario di tutto. Ha ignobilmente fatto finire al nono posto Lucio Battisti con “Avventura” nel 1969 e all’ottavo Lucio Dalla con “Piazza Grande” nel 1972; ha “punito” addirittura oltre il ventesimo posto per ben due anni il povero Zucchero; non è andata meglio a Vasco Rossi, finito venticinquesimo; peggio è capitato agli Stadio, ultimi nel 1984 e nel 1986. Tanti brani diventati poi immortali hanno ottenuto piazzamenti modesti o sono stati esclusi dalle serate finali, come “E se domani” del 1964, “Io che non vivo” del 1965, “Il ragazzo della via Gluck” del 1966, “1950” di Amedeo Minghi del 1983, “Confusa e felice” di Carmen Consoli del 1997. Nel contempo ha coronato come vincitori i Jalisse nel 1997 e Annalisa Minetti nel 1998. Però ha anche premiato e lanciato Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Andrea Bocelli, Giorgia, cioè buona parte della musica italiana nel mondo.

In questo ruolo di sfaccettata bandiera del costume, il festival – non facendosi mancare nulla – ha fatto propri anche i protagonisti dei talent, da Marco Carta a Valerio Scanu, da Giusy Ferreri a Noemi, da Marco Mengoni a Emma Marrone, da Annalisa a Francesca Michielin.

Ora Mahmood, seppur con il decisivo aiutino degli attempati giurati “di qualità” (che non rinunciano ad imporre il loro inossidabile credo anche all’universo giovanile), dovrà farsi carico di questa pesantissima e rispettabile storia. Non solo canora. Il bel testo della sua canzone autobiografica, figlia dei nostri tempi, costituisce l’ennesimo tassello di un mosaico in cui, volenti o nolenti, come italiani ci rispecchiamo tutti.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)