LIBRI / Umberto Berardo racconta “La Banda del Matese”

Pochi, probabilmente, conoscono le vicende della cosiddetta “Banda del Matese”, gruppo di anarchici che nell’aprile 1877 tentò di provocare un’insurrezione delle masse popolari, in particolare contadine, contro il potere, appunto ai piedi dei monti del Matese, tra Campania e Molise.

La rivolta portò all’occupazione dei municipi di Letino e di Gallo Matese, nell’attuale provincia di Caserta, dove, davanti alla popolazione riunita nella piazza centrale, vennero dati alle fiamme gli archivi catastali e distrutto il contatore dell’odiata tassa sul macinato. Inoltre venne fatto a pezzi Il ritratto del Re, mentre Errico Malatesta da Santa Maria Capua Vetere, tra i principali teorici del movimento anarchico italiano, illustrava alla popolazione gli obiettivi della rivoluzione sociale.

Nell’occasione il parroco di Letino, don Raffaele Fortini, appoggiò i rivoltosi dichiarando l’assenza di differenze tra il Vangelo e gli ideali socialisti.

Il tentativo finì malamente. Gli insorti rimasero in galera per oltre un anno e si salvarono dalla corte marziale grazie all’intercessione di Silvia Pisacane, figlia di Carlo Pisacane, la quale intervenne presso il ministro degli Interni Giovanni Nicotera. Il processo contro la Banda del Matese si svolse a Benevento dal 14 al 25 agosto 1878: gli imputati furono assolti grazie anche ad una concomitante amnistia concessa per l’avvento al trono di Re Umberto I.

Questo episodio, decisamente dimenticato forse perché la storia in genere la scrivono i vincitori, è stato disotterrato e rappresenta “l’ossatura” di “Frammenti di espressioni esistenziali”, il nuovo libro di Umberto Berardo, laurea in filosofia e pedagogia, insegnante di materie letterarie oggi a riposo. Il volume, di 200 pagine, è edito da Lampo di Ripalimosani (Campobasso).

L’autore, con abilità, plasma l’esposizione su più livelli, quasi in una sorta di efficace sceneggiatura cinematografica: una prima dimensione, nella forma di racconto, è puramente narrativa e segue le vicende di Andrea Norrica, piccolo imprenditore agricolo molisano che nelle prime stagioni dell’Unità d’Italia è totalmente immerso nella dura esistenza contadina vissuta a Cerasito, frazione di Frosolone, centro (allora) di quasi settemila abitanti in provincia di Campobasso (oggi ne ha meno della metà).

Gli ambienti naturali e abituali in cui è immerso il protagonista sono quelli che accomunano, di fatto, tutto il Mezzogiorno. E che hanno offerto materiali per quel crudo realismo che caratterizza gli splendidi romanzi dei grandi scrittori italiani degli ultimi secoli, da Giovanni Verga a Tomasi di Lampedusa, da Ignazio Silone a Rocco Scotellaro, da Carlo Levi a Corrado Alvaro, da Federico De Roberto a Vincenzo Buccino fino al molisano Francesco Jovine.

E’ il Sud di quello “sfasciume pendulo”, come lo definiva Giustino Fortunato, di quei “cafoni” così ben descritti da Ignazio Silone, dei “pastori nelle case costruite di frasche e di fango, che dormono con gli animali” come li fotografa Corrado Alvaro in “Gente in Aspromonte”. E’ il Mezzogiorno delle tante promesse non mantenute, relegato ad arretratezza ed analfabetismo che continuano a rappresentare piaghe per ogni tempo, nonostante le speranze e le volontà di riscatto emerse in ogni stagione.

Berardo s’inserisce, di fatto, in questo giacimento letterario di “verismo”, offrendo descrizioni dettagliate del “patrimonio” materiale di cui il Molise s’è privato da non molti anni: le umili dimore spartane che hanno rappresentato il “focolare familiare” di un’umanità copiosa e problematica; le stalle guarnite da quei beni preziosi rappresentati dagli ossuti animali, primario sostegno per esistenze fatte di sopravvivenza; il cibo di prossimità, strettamente legato all’autoproduzione, immancabilmente annaffiato dal vino, sorta di riscatto culinario. E poi i fienili, gli orti, le dispense, il tanfo di letame, i racconti con le storie di briganti, le transumanze, i giochi popolari come voche o mazze e pilze. L’artefice di questo affresco umano e sociale attinge non solo all’inevitabile ricerca storica, ma certamente anche ai suoi ricordi personali, in quanto la cosiddetta “civiltà contadina” in Molise s’è eclissata solo negli ultimi decenni, lasciando però tracce ancora abbastanza evidenti.

Un’altra dimensione del romanzo è quella divulgativa, strettamente connessa ed alimentata dal contesto sociale. Berardo ribadisce quei concetti che sono abitualmente alla base della sua ricca e appassionata pubblicistica: la lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, il rapporto tra un potere prevaricante ed un popolo estromesso anche a causa di una non casuale sottocultura, la critica alla religione dei formali e consumati riti rispetto alla potenza dei principi evangelici, l’opposizione ad ogni forma di sopruso e di violenza. Si tratta di tematiche universali che sovrappongono, di fatto, la società di fine Ottocento con quella attuale: in fondo i richiami di Papa Francesco denunciano proprio queste “storture” che la società dei consumi, nonostante i tanto sbandierati proclami neoliberisti, non riesce a risolvere. E che la pandemia sta facendo esplodere in tutta la loro drammaticità.

L’autore, la cui scrittura diventa non solo elevata testimonianza letteraria ma anche “educazione” nel concetto gramsciano, o, vista la forte impronta pedagogica, una vera e propria “preparazione alla vita” nello stile di Johann Pestalozzi (dalla diffusione dell’educazione e della cultura nascono i cambiamenti positivi), riconduce nella Storia, in quella con la lettera maiuscola, le tante realtà estromesse: i contadini del nostro Mezzogiorno, gli emarginati sociali, le donne vittime di violenza, i malati. E una terra eternamente flagellata qual è, purtroppo, quella molisana. Terra non certo priva di sacrifici e di disgrazie, come il romanzo ribadisce nel suo crudo ma aulico realismo.

(Giampiero Castellotti)

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