LA NOTA / Evasione fiscale tra “sopravvivenza” e ingiustizia sociale

Quando un sindacato propose di ritirare il passaporto a coloro che non fossero in regola con il fisco, il sagace Indro Montanelli scrisse che avrebbe fatto prima a proporre di chiudere le frontiere.

Il rapporto tra italiani e gabelle – ammettiamolo – non è mai stato dei migliori. Ci sono ragioni indubbiamente storiche per il caso specifico del nostro Paese. A cominciare dalle lunghe dominazioni straniere, che hanno di fatto soffocato la possibile maturazione di un senso civico diffuso e profondo. Ma pesa anche lo scarso senso dello Stato – di fatto prevale la sfera privata e familiare rispetto a quella pubblica – e la mancanza di un serio nazionalismo, che invece emerge – seppur ad intermittenza – soltanto come supporto alla nazionale di calcio. Vanno considerate anche le “letture” a volte disinvolte del nostro prevalente credo religioso, soprattutto alla voce “peccati”.

L’esito di questo retroterra storico è che se in alcune nazioni, specie quelle di matrice calvinista, i cittadini avvertono come dovere civico il contributo ai servizi pubblici e al senso stesso di comunità, da noi più che rifiutare le tasse – vissute come ineludibili, benché davvero eccessive – c’è quasi il dovere di escogitare il modo migliore per pagarne meno o, addirittura, non pagarle proprio.

Fatto sta, l’Italia è uno dei Paesi a più forte evasione fiscale nell’intero globo terrestre.

Una delle conferme viene da uno dei più qualificati studi internazionali sul settore, condotto dalla britannica Tax Research LLP qualche tempo fa, ma sostanzialmente ancora valido. L’Italia risulta al primo posto in Europa per evasione fiscale e le risorse sottratte annualmente allo Stato vengono quantificate in 190,9 miliardi di euro, pari al 23,3 per cento di tutte le entrate. Praticamente per ogni euro riscosso vanno perduti 23,3 centesimi, per un ammontare di circa il 12 per cento di Pil. Raffrontando questi dati con le altre grandi economie del vecchio continente, la quota di evasione di Francia, Germania e Spagna è meno della metà rispetto alla nostra.

Anche gli ultimi dati sui contribuenti italiani, diffusi dal dipartimento delle Finanze del Mef e relativi alla dichiarazione dei redditi 2018, invitano a qualche riflessione. Sono infatti ben 13 milioni i nostri concittadini che non pagano un euro di tasse, per lo più perché dichiarano di incassare meno degli 8.100 euro, tetto della “no tax area”. E’ un numero francamente elevato, specie se raffrontato con il totale degli accantonamenti dei piccoli risparmiatori, con il tenore di vita medio degli italiani e con altri parametri.

E le “bizzarrie” non finiscono qui. Com’è possibile che il 58 per cento di tutti gli incassi dell’Irpef derivino da appena il 12 per cento dei contribuenti e che soltanto il 5,3 per cento di chi fa la dichiarazione dei redditi indichi oltre i 50mila euro annui di guadagno, tra l’altro versando il 39,2 per cento dell’Irpef totale?

Questa situazione decisamente bislacca è anche figlia di un paradossale cortocircuito: per abbassare le tasse – ma seriamente – occorrerebbe tagliare le spese inutili, cioè i privilegi di pochi. E soprattutto farle pagare tutte e a tutti, cioè nuovamente intervenire sui privilegi di pochi. E’, insomma, il solito “cane che si morde la coda”.

Questa “area del privilegio” è costituita principalmente da pochi grandi evasori, quelli che da soli garantirebbero entrate ben maggiori allo Stato. Principalmente le multinazionali. E’ una “zona grigia”, incarnata da “potentati liquidi”, cioè capaci di muoversi agevolmente in ambito transnazionale, spesso collusi con quei poteri nazionali che sfornano leggi e dovrebbero assicurare i controlli. E’ in questo intreccio che si annida il grosso dell’evasione, protagonisti coloro che riescono a dribblare più facilmente il fisco.

All’elusione totale si affiancano altre anomalie, specie a livello europeo, che sembrano “cucite” apposta per favorire il grande capitale. Tra queste rientra l’opportunità (lecita) offerta soprattutto ai grandi gruppi industriali di sfruttare l’ubicazione – spesso formale – in Paesi europei che praticano aliquote e agevolazioni non molto distanti da quelle dei paradisi fiscali. Ad esempio, perché in Lussemburgo, Irlanda e Olanda le multinazionali possono contrattare con i governi le aliquote fiscali, un’idea promossa addirittura dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker nel suo Lussemburgo? Perché in molti Paesi dell’est Europa, tra l’altro quelli che s’alimentano di tantissimi fondi europei, il prelievo fiscale viaggia tra l’11 e il 15 per cento? Perché c’è tanta ritrosia, nel Palazzi europei, nel permettere anche al nostro Paese di approvare provvedimenti finalizzati a ridurre drasticamente il carico fiscale, adeguandolo a quello di altri Paesi comunitari e degli Stati Uniti di Trump?

Dunque, la stragrande maggioranza dell’evasione, in termini quantitativi, viene da qui,

Una conferma di ciò arriva anche dai numeri diffusi dall’Agenzia delle entrate nel corso di una delle ultime audizioni in parlamento. Emerge un quadro complessivo davvero impressionante. Il totale dei ruoli non incassati ammonta a ben 871 miliardi di euro, coinvolgendo una platea di oltre venti milioni di contribuenti. Ma ad avere i più rilevanti problemi con il fisco, per un totale di quasi 600 miliardi di euro, è appena lo 0,9 per cento dei contribuenti. Cioè il “bottino” più grosso si concentra nella fascia di debito oltre i 500mila euro, quello appunto del “grande capitale”. Con tale cifra si potrebbe abbattere il debito pubblico italiano dall’attuale 132,6 all’83,7 per cento del Pil.

Ma almeno il 90 per cento di questo impressionante totale è imbrigliato come una matassa impossibile da sciogliere: su 871 miliardi di euro, soltanto 84,2 miliardi sono “aggredibili”, pur tra tante difficoltà. Il grosso non è riscuotibile perché i soggetti sono falliti o risultano oggi nullatenenti, o ancora le ditte sono cessate, o ancora i soggetti sono deceduti, e via con altri impedimenti tra azioni cautelari, carichi sospesi, rate fallite su dilazioni non revocate. L’Agenzia delle entrate addossa una parte della colpa alle strutture private, che si sono occupate della riscossione fino al 2006.

Certo, non si possono addossare le intere colpe ai “grandi gruppi”. Ma, va detto a difesa delle piccole e medie aziende, il fisco non può costituire la zavorra per il loro sviluppo. Cioè un conto è pagare il giusto, un altro è essere sovrastati non solo da un carico fiscale davvero eccessivo, con poche analogie negli altri Paesi occidentali, collegata anche ad una serie di adempimenti burocratici insostenibili per un tessuto economico italiano costituito in stragrande maggioranza da piccole aziende a carattere familiare.

C’è chi arriva addirittura a leggere in questo atteggiamento di “scantonamento” dagli eccessi fiscali una sorta di “legittima difesa”: dal momento che la tassazione è tra le più alte al mondo (e tra le più complicate), si escogita il sistema per pagarne meno. A ciò si aggiunge l’irritazione per una contropartita, in termini di servizi pubblici, che definire “discutibile” è un eufemismo.

Non è forse conseguenza di ciò – indubbiamente insieme alla burocrazia eccessiva, alla giustizia lenta e all’alto tasso di criminalità – il fatto che gli investimenti stranieri verso il nostro Paese siano meno di un ventesimo rispetto ad altri Paesi europei?

Al di là delle scaltrezze dei commercialisti e di qualche notaio, sono davvero gratificate quelle aziende costrette a delocalizzare l’impresa (e la coscienza) – quasi sempre a malincuore – pur di non essere spolpate dal fisco italiano? O quei pensionati “scappati” verso latitudini meno onerose, “rifugiandosi” in Tunisia o in Portogallo o addirittura in Bulgaria? Quanti potrebbero risparmiarsi volentieri quella “creatività” prodotta per difendersi in questa “valle di lacrime esattoriali”?

Attenzione: le tasse vanno pagate, è un dovere civico. Solo che non possono costituire certo il bancomat per perpetuare privilegi di fattura medievale. Un sondaggio dell’Anci, ad esempio, fa emergere persino la classifica delle tasse più odiate, come l’onnipresente canone Rai, ma anche il bollo auto, l’Iva, l’Imu, la Tari, cioè quei tanti acronimi giudicati infernali. Ed impressiona che quasi il 12 per cento delle tasse serva a pagare gli interessi sul debito pubblico (e ancora non abbiamo capito a chi), praticamente non portano alcun beneficio ai cittadini. E chissà quante altre fette della torta finiscono per perpetuare, appunto, i privilegi di pochi.

Acuto Giulio Andreotti quando ha detto che l’umiltà è una virtù stupenda, ma il guaio è che molti italiani la esercitano nella dichiarazione dei redditi. Il problema è che i governi – e lui era uno che se ne intendeva – hanno sempre intrapreso le strade peggiori e più inique per fare cassa: aumentare il carico fiscale a cittadini ed aziende, finendo non solo con l’esasperare gli italiani, ma soprattutto con l’impoverire proprio la base produttiva, quella che genera reddito e lavoro.

Il taglio delle tasse alle imprese, lo ribadiamo, è l’unica strada per rilanciare l’economia, ridurre la disoccupazione, garantire sviluppo e serenità sociale al nostro Paese.

“Il solo paese piacevole è quello in cui nessuno teme gli esattori”. La frase è addirittura del V secolo dopo Cristo, attribuita a Teodorico, illuminato re degli Ostrogoti. Aveva la vista lunga.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)