Giuseppe De Rita ricorda “i giardini di San Giovanni”

Giuseppe-De-Rita“Sono cresciuto ai giardinetti di San Giovanni, a Roma. I miei amici si chiamavano Scoparo, Bucalice, Amleto Figa Lunga. Ci rubavamo le donne. Ci picchiavamo. Tornavamo a giocare a pallone insieme. A dieci anni avevamo conosciuto la guerra. A dodici la paura fottuta dei tedeschi. A quattordici tutti a fare la comparsa a Cinecittà. Ogni frase, una parolaccia. Va a mori’ ammazzatoFio de ‘na mignotta. La vita brulicava. I miei dicevano con orgoglio: ‘Siamo ceto medio’. Io, però, sono cresciuto come un popolano, in strada. Quando ho conosciuto mia moglie, sono diventato borghese. È lei che mi ha insegnato il valore della rispettabilità, il tono del comportamento, l’ordine come stile di vita”.

A parlare è il sociologo Giuseppe De Rita nel corso di una lunga e interessante intervista realizzata da Nicola Mirenzi per Huffington Post. Racconta, lui romano, dei primi anni nel quartiere San Giovanni, dove ha frequentato i giardini di via Carlo Felice e le basiliche di San Giovanni e di Santa Croce. Poi, nel corso dell’intervista, si sofferma con la solita intelligenza e lucidità che lo contraddistingue a compiere un’analisi spiegata del nostro Paese.

“Per uscire dal rancore, l’Italia avrebbe bisogno di una carica di libido che non ha più, un desiderio di crescere e possedere, la voluttà di andare oltre se stessa”.

Tutta la chiacchierata è sostenuta da una convinzione: l’Italia ha smarrito la libido.

“Il 6 novembre 1963 ricevetti la lettera di licenziamento della Svimez, la società in cui ero diventato capo della sezione sociologica – racconta il sociologo romano di San Giovanni. “Diciassette giorni dopo, ero davanti a un notaio per creare – insieme alle altre tredici persone licenziate – una società di ricerche tutta mia. Non ce l’avrei mai fatta senza un impeto erotico, quell’energia che fa volere la vita. Del resto, è quello il periodo in cui ho fatto sette figli”.

Il discorso si sposta sull’Italia. “Come ogni lutto, va affrontato reagendo. Il nostro paese, dopo essere riuscito a far espandere il ceto medio, è sospeso tra l’insoddisfazione di non crescere più e il terrore di fare un passo indietro. Il successo del Movimento 5 stelle alle elezioni del 2013 lo testimonia – spiega De Rita. “Dal rancore occorre fuggire. Farlo diventare un’arma della politica significa coltivarlo, non smuovendo la realtà di un millimetro. Politicamente, il rancore degli ultimi dieci anni si è coagulato intorno ai 5 stelle. Ma, in realtà, tutta la politica italiana è mossa dal rancore”.

Il fondatore del Censis è pessimista sulla tornata elettorale. “Mi sembra difficile che alle prossime elezioni si individui una strada che ci conduca fuori di qui. Credo, però, che considerare la velocità essenziale alla nostra società sia un grande errore. Per elaborare il lutto, è necessario del tempo. Invece, twittiamo in continuazione. Minuto per minuto. È come per la confessione: per la buona riuscita è necessario, prima, un esame di coscienza”.

Internet è uno specchio impietoso. “Nel tempo dei social network siamo tutti impantanati dentro noi stessi, e nessuna sollecitazione esterna ha la legittimità di venirci a smuovere di lì – evidenzia De Rita. “Non serve a niente l’appello del presidente della repubblica, né quello del capo della Cei. Servirebbe l’energia che ti spinge a non dormire cinque notti di fila per scrivere un testo. Quella che ti fa mettere su un’impresa nuova. Cercare una donna. Un nuovo amore. In una parola: la vitalità. La nostra è una società vecchia. Una società che ha avuto un enorme calo del desiderio”.

Chiede l’intervistatore se ci sia un Viagra che possiamo usare. “La supplenza della chimica è niente rispetto a quello che veramente servirebbe: un rinascimento della passione, un ritorno del desiderio folle di crescere, qualcosa di emotivamente travolgente. Sputtanare sui social network, invece, ti fa passare la voglia di andare a puttane, come ti fa passare qualsiasi altra voglia.

Ed ancora: le disuguaglianze giustificano la rabbia? “Lo sviluppo, insegnava Hirschman negli anni cinquanta, è uno squilibrio continuato. La ricostruzione, il miracolo economico, l’emigrazione, il consumismo e la reazione al consumismo, cioè il 68: la storia degli ultimi settant’anni è tutta squilibrata. Eppure, questo paese è andato avanti”.

Come fa un uomo così razionale a essere così fedele? “Sono stato educato dai gesuiti e da rosminiani. Mi hanno insegnato a coltivare la fede e la ragione, l’una insieme all’altra. Perché la fede senza ragione diventa semplice devozione.

La battuta finale è sulla religione. E’ più importante Cristo o la Chiesa? “La Chiesa – risponde il sociologo, che va a messa tutte le domeniche. “Nessuna istituzione vive due millenni se si fonda su una sola persona. La Chiesa è fatta di tantissimi uomini venuti dopo Cristo. Pietro, Paolo, Giovanni. E tutti i santi, i grandi papi come Giovanni XXIII, il pontefice della mia giovinezza. Certo, la chiesa è stata puttaniera, corrotta, disgraziata, contestata. Ma è arrivata fino a noi. Un profeta, da solo, non ce l’avrebbe mai fatta”.