Furio Camillo, U.S.A.

Senzanome

Un altro bel racconto dell’ autrice e giornalista Giulia Soi (Giulia sotto la Metro). Ironico, divertente, dissacrante, da leggere fino in fondo.

Poi uno dice l’Italia, Roma, Marino, lo sciopero, la città fa schifo e nonno in carriola… ma non è che in America stiano messi tanto meglio, sa’? No, no.
Tipo, nel 2007 io mio padre andiamo una settimana a Washington a trovare i cugini yankee. Lo so, è assurdo perché si tratta degliStati Uniti, capito, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico; parliamo di anni di luce distanza, altro che Furio Camillo. Lì la linea A mica ci arriva, perché si ferma a Battistini, no? Eppure su tematiche sensibili come – per l’appunto – il trasporto pubblico a volte si scopre che tutto il mondo è paese. Una sera decidiamo di andare per locali e – come tutti i veri yankee doc del terzo millennio – prendiamo la metro per andare downtown. …Roba da pazzi, vero? Mi sa che l’ultima volta che sono andata a ballare coi mezzi a Roma era perché non avevo ancora la patente, quindi parliamo del cretaceo. Quello superiore.
Il viaggio di andata è caratterizzato dalla presenza di numerosissime ragazze vestite da sera, ma con le infradito, struccate, spettinate e con delle borse piene all’inverosimile che manco Mary Poppins nei suoi giorni migliori.Il viaggio di ritorno, invece, è caratterizzato dalle stesse, numerosissime ragazze, che stavolta indossano dei tacchi vertiginosi e sembrano appena uscite dal salone di bellezza più strafigo del mondo mondiale. Deduco che le infradito siano finite nella borsa di Mary Poppins insieme alle spazzole, ai pennelli e agli ombretti che le donzelle hanno usato per trasformarsi… e di fronte a cotanta organizzazione mi sento veramente una pessima, una loser con la L in fronte come quelli di Glee. Io una looser, loro Super Mary (…va’ che ce lo potevano fare una videogioco ora che ci penso: il nome funziona, invece di usare il martello usi l’ombrello, invece di correre voli… cioè, io una sfigata ma in generale perle ai porci, vabbè).
Ad un tratto – saranno almeno le due di notte – una di queste meraviglie si siede di fronte a me. A guardarla bene, non è impeccabile come le altre. A guardarla bene, sembra che abbia bevuto. E non poco. Anzi, direi troppo.I chili di cerone non riescono a coprire un pallore funereo, a metà tra Cime Tempestose e La sposa cadavere, il suo profumo ipercostoso non sa come arginare quella fiatella alcolica che io sento dal mio posto e il suo vestito griffato… beh… lo sta per buttare, anche se lei ancora non lo sa. E non lo sapete neanche voi. Ma ora ve lo racconto io.
La fanciulla, dagli occhi socchiusi, con l’angelica attitudine del pupo dormiente, viene improvvisamente scossa da un sussulto. Sembra tosse, ma non è. E lo capisco quando, dopo un altro sussulto e poi un altro ancora, la sua testa si rovescia prepotentemente in avanti, portandosi dietro l’elaborata messa in piega. I suoi lunghi capelli – ahilei, ahinoi e ahi pure di tutti quelli all’interno del vagone – non riescono a occultare ciò che accade nei 3-4 secondi successivi.
Ovvero, il vomito. Ebbene sì, ladies and gentleman, la tipa ha reso pubblico tutto ciò che si è bevuta (e anche mangiata, azzarderei) stasera in giro per Boston. E io non so dove guardare, visto che lei è seduta proprio davanti a me. Nel dubbio, mi guardo intorno: nessuno fa niente. Continuo a guardarmi intorno, nessuno sembra essersene accorto. (E poi dice che gli americani sono alienati, grazie al cazzo).
Mio padre mi guarda con aria esterrefatta e mormora: “Ha vomitato…” E io rispondo: “Sì. Ma lo puoi dire pure a voce alta, tanto siamo italiani e non ci capisce nessuno e anche se ci capissero nessuno si scomporrebbe più di tanto, direi.” Mio padre, stavolta con tono normale, chiede giustamente: “Che facciamo?” E io: “Scappiamo?” Dovete darmene atto: l’idea non è male, solo che non facciamo in tempo a realizzarla…
No, perché la tipa – lo so, non ci si crede ma è vero – esternato tutto ciò che aveva da esternare, solleva la testa, si ravvia i capelli, prende un fazzoletto, si tampona e si alza. Sì, si alza.
Si avvicina alla porta e scende. Ovviamente lasciando l’orrida traccia della sua notte brava sul pavimento del vagone e ovviamente senza che nessuno (neanche io, a questo punto, e venitemi a criticare se avete il coraggio) faccia nulla, né per soccorrerla né per pulire. Per nostra fortuna, noi dobbiamo scendere alla fermata successiva (che, sia messo agli atti, NON è Furio Camillo). Mi chiedo se faremo in tempo a lasciare quel tempio di germi, batteri, puzza e schifo diffuso prima che accada altro, ma non ci credo neanche io.
E infatti, mentre ci avviciniamo alla porta scorrevole, vengo fermata da una ragazza di colore, una di quelle belle paffute, piene di collane d’oro e con il collo che si muove a scatti quando devono dire “No”. Mi fa: “Exscuse me, lady” E io: “…yes?” (Quando invece avrei tanto voluto dire: “Cazzo vuoi, mi ci manchi solo te! Sono le due di notte, qua puzza di vomito che accòra e io vorrei solo andare a casa a dormire…”) “Where did you buy your shoes?”
(Eccola la domanda che chiude il cerchio, l’interrogativo che unisce indissolubilmente me, il trasporto pubblico, i pazzi da legare e la fermata della metro del mio quartiere da cui ormai vedo dipanarsi un filo rosso che ad Arianna e a Teseo gli faceva un baffo). Guardo le mie Adidas dei (!) Boston Celtics e pronuncio l’unica risposta che mi viene in mente, ovvero quella vera: “Depositi Riuniti, Furio Camillo.”
Sarà la puzza di vomito, sarà la mia risposta, sarà quel che volete… ma l’impegno con cui la ragazza si è appuntata queste quattro parole sul cellulare mi ha dato un senso di soddisfazione che ancora oggi, dopo 8 anni, non accenna a scemare.

(Giulia sotto la Metro – di Giulia Soi)