FOCUS / Il debito di Roma

Roma

Nei giorni scorsi, in un preoccupante disinteresse dei mezzi d’informazione (salvo qualche eccezione), s’è svolta un’interessante assemblea pubblica nella nostra città (al Tufello) in cui “Decide Roma”, movimento antagonista di sinistra, ha presentato un Rapporto sul debito di Roma Capitale, frutto di alcuni mesi di lavoro da parte di numerosi attivisti.

L’iniziativa, come evidenziano i promotori, parte dalla consapevolezza che è ormai costante la riduzione dei diritti individuali e sociali, di beni e di servizi, a fronte della presunta oggettività di vincoli monetari e finanziari.

“Decide Roma” denuncia innanzitutto la mancanza di dati di trasparenza sulla natura e sulla legittimità del debito: un paradosso emblematico – emerso addirittura in sede istituzionale (audizione del commissario alla Camera dei deputati nell’aprile 2016) – per cui per ben il 43 per cento delle posizioni debitorie, pari a due miliardi di euro, addirittura non sono stati individuati i soggetti creditori. Non tutti sanno che sin dal 2008, cioè dall’insediamento del sindaco Alemanno, la gestione di tutti i debiti, e di tutti i crediti è stata affidata alla gestione di un “commissario straordinario per la gestione del debito di Roma Capitale”, che, per il primo periodo, è stato lo stesso sindaco, poi il prefetto Massimo Verrazzani, quindi l’ex assessore al bilancio della giunta Marino, Silvia Scozzese. I debiti passati alla gestione del Commissario, accertati nel 2008 e aggiornati nel 2010, erano (al netto dei crediti) in totale 10 miliardi, dei quali tre verso privati e pubbliche amministrazioni e sette verso le banche e Cassa Depositi e Prestiti.

Altro elemento rilanciato dagli estensori del Report è l’emblematico è lo stretto legame tra la formazione del debito e la politica urbanistica, segnata per decenni dalla speculazione immobiliare, con il risultato – sotto gli occhi di tutti – di zone periferiche invivibili, disperse su un territorio vastissimo e con costi enormi per le infrastrutture a carico della collettività. Un modello nato negli anni Cinquanta e riproposto in modo tenacemente analogo e redditizio per “il partito del cemento” fino ad oggi.

Esistono altri fattori su cui riflettere. A cominciare dalla forte e risaputa incidenza degli sprechi nelle opere pubbliche, amplificati dalle cosiddette “grandi opere” (ad esempio gli eventi sportivi internazionali). La Relazione annuale 2014 della “Commissione speciale per la riforma e la razionalizzazione della spesa dell’amministrazione capitolina” indica, tra i più recenti esempi, la Metro C, i cui costi complessivi sono passati da 2,5 a 5 miliardi con oltre 45 varianti al progetto (a cui va aggiunto il mancato rispetto della tempistica e l’impossibilità di realizzare l’opera originariamente approvata), poi la cosiddetta “Città dello sport”, i cui costi sono lievitati dai 120 milioni del preventivo aggiudicato (2005) a 240 milioni (2008), 608 milioni (2009), 660 milioni (2011), mentre i lavori si sono fermati nel 2012 e le strutture stanno deperendo (spreco stimato di 500 milioni) e infine il Centro congressi Nuvola di Fuksas con il raddoppio dei costi iniziali, varianti in corso d’opera, ritardi su tempi di consegna e sprechi stimati pari a 200 milioni.

Oltre al “capitolo grandi opere”, vanno ricordati gli alti tassi d’interesse corrisposti a Cassa Depositi e Prestiti e alle banche per i 1.686 mutui contratti; il peso – pari a circa un miliardo di euro – degli oltre duemila contenziosi giudiziari sugli espropri per pubblica utilità, che alimentano la grande rendita proprietaria; gli alti costi per le politiche di privatizzazione e di esternalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi di welfare, che lungi dal rappresentare una soluzione alle inefficienze del pubblico, ne rappresentano un aggravio. Su tutte c’è la sostanziale insostenibilità della finanza pubblica originata da un deficit strutturale delle entrate di bilancio del Comune di Roma e non – come solitamente si afferma – da un eccesso di spesa: deficit riscontrabile anche in paragone con le altre città italiane, nonostante le aliquote di tassazione più alte a carico dei cittadini.

“Sono tutte questioni che dicono molto sullo stato della città e su come, grazie al patto di stabilità interno e al pareggio di bilancio, alla spending review e ai tagli dei trasferimenti da una parte, e alla consegna della città ai grandi interessi finanziari e speculativi dall’altra, sia oggi messa a forte rischio la stessa funzione pubblica e sociale del Comune – sottolineano i promotori dell’interessante e dettagliato Rapporto.

In termini operativi, con un documento presentato al neosindaco della nostra città, il movimento “Decide Roma” propone un audit pubblico e trasparente sul debito, al di là del solito nucleo di esperti, con lo scopo di giungere ad una sostanziale riduzione dell’onere (interessi e capitale) a carico della collettività e restituire alla comunità territoriale e al Comune la capacità di poter decidere e di mettere in campo scelte che prefigurino un altro modello di città. Mettendo quindi fine alla subordinazione dell’autonomia municipale nei confronti delle direttive governative (e dei soliti “palazzinari”) e restituendo alla città il diritto di scegliersi il proprio futuro.

“La città e i suoi beni comuni sono oggi ostaggio dei poteri forti della proprietà fondiaria e immobiliare, delle banche e della finanza, e i cittadini ne subiscono le conseguenze – sottolineano i promotori dell’iniziativa. E aggiungono: “Da diversi anni il debito è agitato, su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di democrazia”. Come affermato da Milton Friedman, in sostanza, il debito rappresenta lo shock che serve “a far diventare politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”. Parole sante, aggiungono gli scriventi.

 

I PATTI DI STABILITA’ – Gran parte delle difficoltà finanziarie dei Comuni nasce da una serie di normative che hanno imposto vincoli sempre più drastici ai bilanci degli enti locali. Questo, nonostante il contributo dei Comuni all’indebitamento pubblico nazionale non superi il 2,1 per cento dell’intera cifra.

La misura più significativa, come ricorda il Rapporto nelle sue premesse, è stato il patto di stabilità interno, introdotto nel 1999, che persegue il raggiungimento di uno specifico obiettivo di saldo finanziario, con monitoraggio e certificazione dei risultati conseguiti e l’applicazione di sanzioni in caso di mancato raggiungimento degli stessi. Di fatto, l’applicazione del patto di stabilità ha comportato nel tempo effetti pesanti sulla stessa funzione pubblica e sociale dei Comuni.

In un primo periodo (1999-2005) il patto di stabilità interno ha avuto come obiettivo primario la riduzione della spesa per il personale: si è così passati dall’automatica sostituzione di ogni lavoratore che andava in pensione all’ingresso di un nuovo lavoratore ogni due che terminavano il servizio, per poi passare alla sostituzione con un rapporto di uno a cinque, fino al blocco del turn over.

Secondo i dati Istat, dal 2001 al 2011, i lavoratori pubblici sono passati da 3.209.125 a 2.840.845; la contrazione maggiore si è avuta negli enti locali, dove gli addetti sono passati da 478.805 a 428.218, con una riduzione del 10,6 per cento.

Indubbiamente, aggiungiamo noi, negli anni passati spesso s’è abusato del “posto pubblico”, con “infornate” di parenti, amici e corregionali da parte di molti politici e amministratori locali. La raccomandazione ha quasi sempre annullato il merito. A ciò s’è aggiunto un tasso di produttività tra i più bassi a livello europeo, anche grazie alla scarsa professionalità di tanti assunti nella pubblica amministrazione. Ma oggi, questi tagli drastici – non casuali – rischiano di annullare anche il senso stesso di servizio pubblico.

In una seconda fase (2006-2010) l’obiettivo del patto di stabilità interno, rilevano i promotori del Rapporto, si è allargato verso la drastica riduzione delle possibilità di investimento da parte degli enti locali. Uno studio di Ifel (fondazione dell’Anci) sulla situazione finanziaria dei Comuni, dimostra come, nel triennio 2008-2010, il saldo finanziario medio nazionale dei Comuni sia stato di 26,5 euro pro capite, realizzato attraverso la concomitante riduzione delle entrate (-12,5 euro pro capite) e delle spese complessive (-39 euro pro capite). Quest’ultimo risultato, peraltro, deriva una crescita delle spese correnti (+39 euro) e da una riduzione delle spese in conto capitale (-78 euro).

Detto in altri termini, in quel triennio i Comuni hanno sostanzialmente bloccato gli investimenti e ritardato i pagamenti degli stessi.

Dopo diciassette anni di vigenza, dal primo gennaio 2016, il patto di stabilità interno è stato sostituito con il nuovo vincolo del pareggio di bilancio costituzionale che si applica a tutti i Comuni, compresi quelli con meno di mille residenti, finora esclusi dal patto di stabilità, le Province, le Città metropolitane e le Regioni. Unica eccezione è rappresentata dalle Unioni dei Comuni, un modo per favorire gli accorpamenti, a danno anche delle sovranità e delle identità locali.

 

ROMA CAPITALE – Alla fine del 2014, ricorda il documento, il debito pubblico di Roma Capitale ammontava complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Una parte (7,4 miliardi, di cui sei con le banche, al netto dei crediti) gestita dal Commissario straordinario, ed una parte (1,2 miliardi) direttamente in carico alla amministrazione comunale.

Si tratta di un debito pari a tremila euro pro capite (2.500 pro capite per il solo debito finanziario), in linea con l’indebitamento dei maggiori comuni. Ad esempio il debito finanziario del comune di Milano ammonta a 3.300 euro pro capite.

Sui giornali è stata diffusa la cifra di 13,6 miliardi, del resto rilanciata anche dalla politica (compreso il sindaco Raggi). E’ vero, ma occorre tenere conto dei crediti (1,8 miliardi) che controbilanciano in parte i debiti. In fondo, a pensare male, accentuare i debiti può considerarsi anche una strategia politica per imporre politiche di svendita del patrimonio pubblico.

Altra “chicca” che pochi conoscono: per il pagamento dei debiti pregressi è stato stanziato un versamento annuale di 500 milioni di euro, dei quali 300 milioni versati dallo Stato e 200 milioni dal Comune di Roma, coperti – questa la nota dolente – con l’istituzione dell’addizionale di un euro per ogni biglietto aereo dagli aeroporti romani (gettito pari a 20 milioni/anno) e con l’aumento dello 0,4 per cento dell’addizionale Irpef (gettito pari a 180 milioni/anno). Insomma, un salasso per i contribuenti. Di fatto, nel periodo 2008/2014, sono stati già pagati 2 miliardi di interessi sul debito commissariale, ad un tasso medio superiore al 5 per cento annuo, molto al di sopra del costo del denaro presso la Bce (0,9 per cento, in quel periodo) e del tasso interbancario (1,2 per cento).

Leggiamo il Report: “la differenza tra il costo che le banche sopportano per rifornirsi di denaro dalla Banca centrale europea e gli interessi pagati dal Comune di Roma ammonta, nel periodo considerato, ad un totale di circa 1,7 miliardi”. Nel 2048, al termine della scadenza dei debiti, il Comune avrà pagato alle banche sette miliardi di interessi su 7,1 miliardi di prestiti !

“Come se questo non bastasse, invece di ristrutturare il debito – sottolinea ancora il Rapporto – rendendo le rate di ammortamento annuali compatibili con i fondi a disposizione, si è deciso di contrarre ulteriori prestiti per pagare i prestiti, sommando interessi ad interessi”. Questa operazione, chiamata “attualizzazione” del debito, comporta alla collettività ulteriori 2 miliardi di interessi. Il commissario ha calcolato che, se si dovesse continuare a pagare gli stessi tassi di interesse attualmente in vigore fino alla scadenza dei mutui (2048), il totale della spesa per interessi che avremo pagato alle banche ammonterà a 9 miliardi. Ecco come stanno le cose.

Altro aspetto emblematico: il Comune di Roma ha drasticamente ridotto dal 2008 gli investimenti in infrastrutture pubbliche, ben al di sotto dei limiti posti dal patto di stabilità, con la conseguenza di aggravare il deficit di servizi.

C’è poi il capitolo dei derivati. Il Comune di Roma, come ricorda “Decide Roma”, ha stipulato diversi contratti derivati, in particolare nel periodo 2002-2007. Lo scopo primario: disporre di liquidità nell’immediato, rinviando le eventuali perdite nel tempo. Gli istituti finanziari citati nel Rapporto sono i soliti: Barclays, Dexia Group, Ubs ltd, JP Morgan.

 

LA STORIA DEL DEBITO – Il documento ricorda che nel 1994, con Rutelli neoeletto, il debito finanziario del Comune di Roma ammontava a 3,3 miliardi. In linea con l’indebitamento medio degli enti locali. Nel 1998, ancora con Rutelli (sindaco fino al 2001) il debito è quasi raddoppiato, arrivando a 6,2 miliardi. Con Veltroni ancora nuovo indebitamento, fino agli 8,4 miliardi nel 2008. “Decide Roma” tiene a sottolineare che la crescita del debito non è stata dovuta ad eccessi di spesa per servizi o per investimenti (ad esempio nel trasporto pubblico locale, la spesa media di Roma negli ultimi cinque anni è stata di 260 euro/residente contro le 580 di Milano, mentre nel settore mense e servizi scolastici il rapporto è stato di 28 euro/residente contro 49), ma soprattutto ad una sorta di spirale dovuta agli alti interessi da corrispondere sui mutui contratti. Ma non solo.

Occorre infatti aggiungere che la speculazione edilizia ha alimentato una città frammentata e irrazionale, anche in termini infrastrutturali, con costi gestionali decisamente più elevati (reti fognarie, energetiche, idriche, viarie, ma anche servizi di smaltimento, di trasporto, pubblici). A ciò s’è sommato l’abusivismo: nel 2010 si calcolava un 40 per cento di città abusiva, pari a 14mila ettari. Ciò è equivalso anche a mancati introiti per Ici, Tari, ecc. Da non dimenticare il peso dei contenziosi per espropri finalizzati alla pubblica utilità (oltre duemila ricorsi giudiziari su questa materia). Poi l’evasione fiscale e l’esenzione delle imposte al Vaticano.

 

IL CAPITOLO “PARTECIPATE” (ATAC, AMA…). Il debito delle due principali aziende “in house” del Comune di Roma, iscritto nei bilanci del 2014, è pari a 1,5 miliardi (Atac ) e a 1,2 miliardi (Ama). A questo fanno fronte crediti pari a circa un miliardo (Atac) e di 775 milioni (Ama), molti dei quali di difficile esigibilità e dichiarati a rischio negli stessi bilanci aziendali.

Nel caso di Atac, ricorda il documento di “Decide Roma”, dal 2008 ad oggi si sono registrate perdite di esercizio pari a circa 1,2 miliardi (estesi a 2 miliardi se partiamo dal 2002). Questa situazione ha costretto alla ricapitalizzazione da parte del socio azionista (il Comune) per ben due volte, nel 2011 e nel 2015: nel primo caso attraverso la cessione di una serie di beni immobili da “valorizzare”, stimati per 400 milioni di euro; nel secondo, attraverso il trasferimento di 180 milioni di euro, dei quali 40 milioni liquidi ed il restante sempre in beni immobili.

La situazione è differente per quanto riguarda Ama, che, grazie alla normativa nazionale in materia di rifiuti, gode di un sistema tariffario che garantisce automaticamente la copertura dei costi da sostenere. Per questo l’azienda, dopo le perdite accumulate fino al 2008, ha continuato a registrare utili d’esercizio. A prezzo però di un incremento medio annuo delle tariffe di circa il 10 per cento. Nonostante questo, nel 2007 e nel 2008 l’azienda ha registrato perdite per quasi 300 milioni di euro a causa dei crediti accumulati verso i clienti, giudicati di difficile esigibilità e quindi svalutati, e dovette quindi essere ricapitalizzata: il Comune di Roma rinunciò a 60 milioni di euro di crediti vantati nei confronti della propria controllata, mentre l’azienda operò una rivalutazione immobiliare che permise di iscrivere un valore di oltre 200 milioni di euro nel suo capitale netto.

“Queste vicende dimostrano come si sia provato a ricorrere al mercato immobiliare per rimediare alle difficoltà delle aziende, intrecciando il destino delle ultime a quello del primo, proprio nel momento in cui questo registrava una forte crisi – si legge nel documento. Arrivando di conseguenza a porre il vero rimedio solo con l’aumento delle tariffe sui rifiuti, nel caso di Ama, o del costo del biglietto del trasporto pubblico locale, nel caso di Atac (i cui ricavi coprono oggi il 31 per cento del costo del servizio, a fronte del 26 per cento nel 2010).

La storia di queste aziende, va ricordato, è costellata di scandali giudiziari. Dalla cosiddetta “Parentopoli”, che ha coinvolto la giunta di Alemanno, con assunzioni a chiamata diretta al caso dei “biglietti clonati”, il cui ricavato andava a finire nelle tasche delle organizzazioni politiche capitoline, e che ha pesato, in termini di mancati introiti, per una cifra intorno ai 70 milioni..

Per quanto riguarda invece la gestione dei rifiuti, non si può non menzionare il sistema costruito da Manlio Cerroni, patron della discarica di Malagrotta, ora accusato di associazione a delinquere, che ha portato ad una totale dipendenza verso i suoi impianti, e relativi affari, della gestione dei rifiuti romani, con un esborso per anni di 80 euro per tonnellata trattata; denaro pubblico che avrebbe potuto essere utilizzato da tempo per rendere il sistema più virtuoso. Da non dimenticare, inoltre, che la cooperativa “29 giugno” di Buzzi si era assicurata una bella fetta di appalti nella raccolta rifiuti.

 

LA RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO – La proposta di “Decide Roma” per la ristrutturazione del debito – da fare al più presto – ci appare ragionevole. Poiché la gran parte dei mutui attivi è stata contratta con Cassa Depositi e Prestiti (1.491 mutui su 1.686), il movimento propone l’avvio di una ricontrattazione politica ed economica degli stessi, chiamando in causa il governo, sia in quanto diretto interessato (l’81,4 per cento del capitale sociale di Cdp è del ministero dell’Economia), sia sulla necessità di un provvedimento legislativo che modifichi, attraverso il ripristino dei tassi agevolati, le modalità di sostegno di Cassa Depositi e Prestiti verso gli enti locali.

Un altro passo, già realizzato con successo da altri Comuni italiani, è quello della contestazione dei due contratti derivati ancora attivi, evitando di accumulare, grazie a queste operazioni di speculazione finanziaria, ulteriori passività per 32 milioni di euro (ad oggi).

Infine, ma non per importanza, occorre metter mano – anche rivendicando un provvedimento legislativo – alla questione degli oltre 2000 contenziosi legati ai ricorsi per gli espropri per pubblica utilità, che gravano – potenzialmente – sul debito per una cifra pari a un miliardo. Si tratta – sic et simpliciter – di debito odioso, che costringe la collettività a finanziare la rendita fondiaria.

A ciò si dovrebbe sommare una seria lotta all’evasione e l’intervento sulle proprietà immobiliari del Vaticano. Meno fattibile, secondo noi, una tassa patrimoniale che finirebbe per far pagare i soliti noti, mentre i “furbi” continuerebbero ad operare nell’ombra di finte residenze e società di comodo.

(GC)