Assunzioni nella pubblica amministrazione, tra pro e contro

BandieraIl sottosegretario alla Pubblica amministrazione, Angelo Rughetti, ha annunciato nuovi “corposi” concorsi pubblici per sostituire chi, nel pubblico impiego, andrà in pensione nei prossimi quattro anni. Si parla di un’infornata di 500mila statali.

La notizia, che in apparenza potrebbe risultare positiva sia per le speranze di centinaia di migliaia di famiglie per l’agognato “posto fisso” sia per il ringiovanimento dell’elefantiaco apparato pubblico, in realtà presta il fianco ad una serie di considerazioni non proprio esaltanti per il nostro Paese.

La prima è di natura economica. In questo lungo periodo di riassetto e di “ristrutturazione” della macchina pubblica , una “cura dimagrante” resa necessaria da anni di assunzioni selvagge, spesso figlie di logiche clientelari, il numero dei dipendenti del pubblico impiego è tornato più o meno in linea con quello di altri Paesi europei. Diciamo che alcune “mostruosità” sono state attenuate. Certo, restano numerosi problemi al tappeto, ad esempio un’età media eccessivamente alta. E il freno sul contratto unico, che invece permetterebbe di spostare più facilmente dipendenti inutilizzati da un posto all’altro.

Il crescente numero di pensionamenti dovrebbe, invece, rappresentare un’occasione per ridimensionare il peso della costosa burocrazia pubblica, una delle principali zavorre per il nostro Paese: meno dipendenti pubblici e più informatizzazione equivarrebbe a più efficienza, ad una radicale semplificazione, a maggiori opportunità per l’imprenditoria e soprattutto a meno tasse (quelle che poi servono a finanziare uffici del registro, del catasto, delle notifiche, giudiziari, prefetture e altri luoghi ad alto tasso di burocrazia). Insomma, si ridurrebbe il peso di uno Stato inefficiente che spesso soffoca l’iniziativa privata e l’esistenza quotidiana di ogni cittadino comune.

Ma la questione vera non è nei numeri, che tra l’altro dovrebbero fisiologicamente calare a causa dell’apporto delle nuove tecnologie (ma non manca mai chi – per interesse – rema contro, Tomasi di Lampedusa ce l’ha illustrato egregiamente). Il nodo centrale è nel basso tasso di rendimento dei dipendenti pubblici italiani: è sufficiente comparare i differenti dati di assenteismo o di utilizzo delle legge 104 tra pubblico e privato per averne una prima conferma. Ma anche nella scarsa produttività e nella diffusa inefficienza, quasi sempre figlie di mancanza di deontologia, di merito e di competenze: i continui scandali con timbrature per conto terzi sono lì a ricordarcelo. A tutto ciò si somma la disorganizzazione generale, lo scarso senso di responsabilità e un’ideologia veterosindacale che ha difeso tout court il lavoratore, a prescindere dal contesto.

Occorre poi ricordare che il debito pubblico ha raggiunto ormai la cifra-record di 2.300 miliardi di euro, nonostante gli interventi della Banca centrale europea. Prevedere un superplus di spesa, un’ulteriore esigenza di risorse quantizzabile in non meno di 30 miliardi annui, è da incoscienti, visti i tempi. Il periodo elettorale, inoltre, con un governo debole, numeri economici non proprio esaltanti e il quantitative easing che rischia di attenuarsi, si presta alle speculazioni internazionali a cui, purtroppo, siamo abituati da qualche anno.

Ancora un altro aspetto: assumere 500mila persone nel pubblico equivale a limitare le funzioni delle aziende private che coprono servizi di pubblico interesse o garantiscono forniture e servizi alla pubblica amministrazione.

C’è, infine, la polemica politica: l’infornata di 500mila assunti statali nuovi di zecca (o perlomeno l’annuncio pre-elettorale) non potrebbe rappresentare un bel serbatoio di voti che in questo caos determinato da una non-legge elettorale potrebbe risultare utile a qualcuno?

(Domenico Mamone – presidente Unsic)