Appio Claudio Cieco, chi era il “costruttore” dell’Appia

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Appio Claudio Cieco in Senato
Appio Claudio Cieco in Senato

Aristocratico illuminato e progressista. Politico esperto e intelligente dalle brillanti doti amministrative. Valido letterato e filosofo dalle idee liberali, appassionato della società greca. Abilissimo oratore. Questo era, in sintesi, Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus), il “costruttore” di via Appia, la “regina viarum”, vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.

Di nobili origini, apparteneva all’antica gens Claudia. Romano con lontane origini sabine, nacque nel 350 a.C. Nel corso della sua lunga esistenza – sappiamo che morì molto vecchio, probabilmente ultraottantenne, e cieco, da cui il soprannome (una leggenda lega la sua cecità all’ira degli dèi per la sua idea di unificare il pantheon greco romano con quelli celtico e germanico) – ricoprì le più importanti cariche pubbliche e militari del tempo. Ad esempio, fu censore nel 312 a.C., console nel 307 e nel 296 a.C., quando gestì la campagna contro gli Etruschi sostenuti dai Sanniti, sconfiggendo entrambi gli eserciti, ma anche quelli dei Latini e dei Sabini.

Si dimostrò sempre efficiente e geniale, come quando attuò una lungimirante riforma per allargare l’accesso al Senato ai cittadini di bassa classe sociale e ai figli dei liberti e per estendere la base censitaria ai beni mobili. Ciò rientrava nella sua capacità di conciliare gli interessi dei patrizi più intransigenti con quelli dei plebei.

Per sua iniziativa, nel 304 a.C., venne pubblicato il “Civile ius”, il testo delle formule di procedura civile (legis actiones), chiamato “Ius Flavianum” e il calendario in cui erano distinti i Dies fasti dai Dies nefasti.

Fu anche un grande mediatore, come quando influì sulle trattative di pace nella guerra contro Pirro, re dell’Epiro. In particolare fu una sua orazione del 280 a.C., in Senato, a far recedere i Romani dall’accogliere le proposte di pace di Pirro. Permise agli abitanti humiles di Roma, inoltre, di iscriversi alle tribù rustiche, che erano precedentemente controllate dai membri dell’aristocrazia terriera.

Il suo scritto di riferimento sono le “Sententiae”, in metro saturnio, massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante particolarmente apprezzate dal filosofo greco Panezio, nel II secolo a.C. Purtroppo dell’opera ci sono giunti soltanto tre frammenti. La più celebre è “Fabrum esse suae quemque fortunae”. Interessante la soluzione che egli ha proposto per problemi dell’ortografia latina, quali l’applicazione del rotacismo, cioè la trasformazione della “s” intervocalica in “r”, e l’abolizione dell’uso della “z” per indicare la “s” sonora.

Il suo nome è rimasto immortale, però, grazie a due tra le più importanti opere ingegneristiche dell’epoca repubblicana: l’acquedotto Appio (l’Aqua Appia), che prende acqua dalla Rustica sulla via Collatina e finisce sull’Aventino, con una portata di 75mila metri cubi, e la via Appia, che da lui prese nome e che conferma l’interesse di Appio Claudio per un’espansione romana verso la Magna Grecia (non a caso termina a Brindisi, anche se allora finiva a Capua, città sannita). Due realizzazioni entrambe fortemente innovatrici, quasi rivoluzionarie, tanto da essere prese a modello nei secoli a seguire. Fece costruire nel 296 a Roma anche il tempio della Bellona, in Campo Marzio, di fianco al Tempio di Apollo Medicus: di questa dea accese il culto, insieme a quella della dea Vittoria Si deve ancora a lui la costruzione del Ponte Leproso a Benevento.

Sembra che ebbe nove figli, quattro maschi e cinque femmine.