ANALISI / Renzi promette, Orbán fa i fatti

OrbanLa differenza tra il nostro premier Renzi e quello ungherese Orbán è tutta nei numeri. I tre anni di governo del nostro presidente del Consiglio sono stati caratterizzati da risultati deludenti: la promessa che l’Italia avrebbe addirittura potuto guidare la ripresa europea sappiamo com’è andata a finire. Le stime del Pil, in questo triennio, sono finite puntualmente al ribasso. Il nostro impegno sui migranti viene spesso visto con fastidio all’estero, dove questa “industria della solidarietà” – come ci ha insegnato Mafia Capitale – sta di fatto facendo lievitare – per contrapposizione – i consensi alle formazioni più xenofobe della destra.

In Ungheria, dove dopo anni di governo socialista, il Paese nel 2009 era sull’orlo dell’abisso: Pil a meno 6 per cento, produzione industriale che a febbraio di quell’anno era calata del 30 per cento su base annua, tasso di disoccupazione vicino al 10 per cento, consumi delle famiglie nel baratro, aumento del 30 per cento del numero dei bambini dati in custodia ai servizi sociali.

L’Europa su quei numeri aveva pesanti responsabilità perché, dopo anni di deficit pubblico, la necessità di riportare l’Ungheria nei parametri di Maastricht ha corrisposto ad una pioggia di tasse e ai soliti pesanti tagli della spesa pubblica e del sistema pensionistico, quindi una politica non dissimile da quanto si sta facendo da anni in Italia.

Il Paese, allora governato dai socialisti, per evitare la bancarotta si rivolse al Fondo monetario internazionale e all’Unione europea, con i quali pattuì, a fronte delle solite misure di rigore, un piano di aiuti da 20 miliardi di dollari.

Nel 2010, di fronte a questo disastro, la destra stravinse le elezioni. Viktor Orbán, capo del partito di centrodestra Magyar Polgári Szövetség (Fidesz), ha ottenuto una larghissima maggioranza. La politica del nuovo corso s’è innanzitutto di fatto liberata delle pesanti influenze di Unione europea, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e i soliti organismi del genere che hanno causato non pochi danni in tanti Paesi. Addirittura il prestito di 20 miliardi di dollari è stato restituito con un anno d’anticipo pur di liberarsi di questo ingombrante legame. Nel contempo sono aumentate le tasse, ma per le banche, i gruppi finanziari, le assicurazioni e le grandi imprese, portandole a standard tra i più alti d’Europa. Ha inoltre nazionalizzato numerosi fondi pensione privati, per un valore superiore ai 10 miliardi di euro. Quindi ha alzato il salario minimo del 18 per cento e costretto le società energetiche ad abbassare del 20 per cento le tariffe.

Nel giro di qualche anno l’Ungheria ha iniziato a riprendersi, ma certa stampa del nostro Belpaese ha preferito negare la realtà. Ci limitiamo ad una paio di testate on-line.

L’8 dicembre 2013 appare sul giornale in rete “Il Post” un pezzo dal titolo significativo: “La bufala dell’Ungheria”. Lo firma tale Davide Maria De Luca. E’ lapidario: “Non c’è nessun boom economico”. Ed ancora: “Nelle ultime settimane sui social network si è parlato parecchio dell’Ungheria. A quanto si racconta in vari articoli, status di Facebook e blog (ad esempio qui) l’Ungheria è uscita trionfalmente dalla crisi dopo aver cacciato a pedate l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la BCE e gli altri “usurai” che strangolavano il paese. Gli articoli citano spesso molti dati, alcuni dei quali esatti, ma per lo più incompleti – come minimo – e spesso male interpretati. Se guardiamo bene come stanno le cose viene fuori una storia diversa: l’Ungheria è un paese dove non c’è nessun boom economico, che non ha “cacciato” proprio nessuno e dove le leggi approvate dal governo non lasciano ben sperare per il futuro della democrazia nel paese”.

Poi “Il Post” dà i numeri: “Nel 2013 si prevede una piccola crescita di poco superiore allo 0,1 per cento, mentre nel 2015 il paese dovrebbe crescere dell’1,2 per cento”.

I numeri sono ben altri come ricorda Ludovico Fulci in un commento recente al post: “Dati 2014: produzione industriale più 11,3 per cento, Pil più 3,9 per cento, tasso di disoccupazione sceso al 7,9 per cento, rapporto debito-Pil al 79,2 per cento, dal 2011 l’aliquota fiscale sul reddito personale è stata dimezzata dal 32 al 16 per cento. I dati sono riportati anche da Tradingeconomics.

Seguono altri commenti critici. Come quello di Renato Mereu: “Come informarsi mal informadosi !! Grazie all’autore di questo articolo per avermi fatto capire che la scelta del governo ungherese è stata più che giusta e ha impartito una sonora lezione ai poteri forti, spero che anche qui in Italia un giorno decideremo di prendere molto democraticamente a calci nel di dietro i poteri forti con tutti gli annessi e connessi”.

Più duro Cosimo: “E’ un articolo semplicemente misero, che nella sostanza ammette la condotta sana di Orban e si affanna a cercare qualcosa che possa servire alla causa della finanza speculativa e del potere usuraio internazionale”.

Sulla stessa lunghezza d’onda, ma più recente, il pezzo “Ungheria, Paese dei ‘falsi miracoli’ economici” di Luigi Pandolfi, apparso su “L’inkiesta” del 5 aprile 2014.

“Domenica 6 aprile gli ungheresi vanno al voto per eleggere il nuovo parlamento. Sono le prime elezioni generali da quando è entrata in vigore la nuova costituzione. L’Ungheria è da qualche anno nel mirino della stampa internazionale per le virate autoritarie del governo in carica e queste elezioni, che si svolgeranno con una nuova legge elettorale sfacciatamente confezionata sulle esigenze del partito al potere, risentiranno anche degli strombazzi governativi sullo stato dell’economia – scrive Pandolfi. E aggiunge: “Oggi la Fidesz è membro del Partito popolare europeo (Ppe) e nei suoi documenti ufficiali non è dato alcun indizio della sua vena reazionaria e autoritaria”. Poi, però, una serie di accuse di nazionalismo spinto. Fino al solito ritornello economico: “Su alcuni media europei, e segnatamente sul web, si parla con insistenza di un presunto ‘miracolo’ ungherese – riattacca l’articolista. “Tanto che da parte di alcune correnti ‘sovraniste’ e anti-euro del continente, questo Paese viene elevato al rango di modello. I contenuti della narrazione sono questi: l’Ungheria ha cacciato il Fondo monetario internazionale e recuperato la sua sovranità monetaria; cosi facendo ha rilanciato la sua economia e risolto una serie di problemi sociali, a cominciare dalla disoccupazione dilagante. Cosa c’è di vero? Molto poco”. E qui si riportano polemiche sul ‘mistero’ a proposito della provenienza dei capitali che hanno consentito di estinguere anticipatamente il debito dei 20 miliardi (prestati da una finanziaria americana?) o sulla holding Közgép Zrt, che, avrebbe vinto appalti pubblici negli ultimi anni per oltre 200 miliardi di fiorini (circa un miliardo di dollari), di cui una quota andrebbe al partito di governo.

Il problema più serio, ancora una volta, è nella diffusione dei numeri: l’articolista parla di “crescita stimata per il 2013 intorno allo 0,2 per cento, mentre nel 2015 è prevista una crescita dell’1,2 per cento”. Per l’occupazione ammette: “Un po’ meglio vanno le cose sul versante occupazionale, se è vero che nell’ultimo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,1 per cento, dato più basso dal 2008 (la media europea è sopra il 12 per cento)”.

Ben altri risultati emergono da un pezzo di oltre un anno dopo. Lo ha scritto Rodolfo Casadei per “Tempi” e il titolo è già tutto un programma: “Qual è il paese europeo che cresce più di tutti? Ebbene sì, l’impresentabile Ungheria di Orban”.

Il sommario: “L’Orbanomics funziona. A forza di misure non ortodosse a vantaggio delle imprese nazionali, Budapest, osteggiata da Bruxelles, sta sconfiggendo la crisi”.

Quindi l’articolo: “A Bruxelles masticano amaro e cercano il pelo nell’uovo. A New York si rimangiano le critiche e si arrendono all’evidenza. In tutta l’Europa meridionale leader dei partiti populisti di destra e di sinistra prendono appunti e sperano di potere un giorno copiare la ricetta. Perché tutti i numeri dicono che il miracolo economico dell’Unione europea è la sciovinista, semi-autoritaria, impresentabile Ungheria di Viktor Orban. E lo è grazie alle sue misure non ortodosse, cioè alle imposte maggiorate sui profitti delle banche, agli attentati all’indipendenza della banca centrale, a politiche discriminatorie a vantaggio delle imprese nazionali”.

Poi i numeri reali: “L’anno scorso il Pil ungherese è cresciuto del 3,6 per cento, il valore più alto in tutta l’Unione europea. Il tasso di disoccupazione è sceso dall’11 per cento del 2011, quando è stata inaugurata quella che i critici hanno beffardamente definito la ‘Orbanomics’, al 7,7 per cento alla fine dello scorso anno. Il consumo privato così come la produzione industriale hanno ripreso a crescere. Le grandi marche tedesche di auto aprono nuovi impianti in territorio ungherese o allungano i turni di lavoro di quelle esistenti.

Standard & Poor’s ha rialzato il rating dell’Ungheria portandolo da BB a BB+. E tutto questo è stato realizzato senza aumentare il debito pubblico, che anzi è diminuito da un valore pari all’80,9 per cento del Pil nel 2010 al 77,3 per cento attuale (i governi socialisti lo avevano fatto impennare dal 55,1 per cento del 2002 all’80,9), e senza sfondare il limite del 3 per cento di deficit annuo del bilancio fissato da Bruxelles: tutti lo indicano al 2,5 per cento nel triennio compreso fra l’anno scorso e il prossimo”.

Orban sarà pure impresentabile, ma Renzi farebbe bene a prendere appunti anziché alimentare il solito e consumato repertorio di battute. Anche perché, secondo l’Fmi (quindi non il portavoce di Orban), il Pil crescerà nel 2015 del 2,7 per cento e nel 2016 del 2,3 per cento. Secondo l’Ocse la crescita sarà del 3 per cento nel 2015 e del 2,2 nel 2016. Secondo la Commissione europea, la crescita non supererà il 2,5 per cento nel 2015 e il 2 per cento nel 2016.

In attesa delle conferme, c’è un altro dato importante, diffuso dal “Sole 24 Ore”: le esportazioni hanno raggiunto il 91 per cento del Pil e lo stock di investimenti dall’estero gli 80 miliardi di dollari. “L’Ungheria è nei fatti uno dei Paesi dell’Est europeo che attraggono più investimenti diretti dall’estero – sottolinea il quotidiano economico della Confindustria. “Le imprese straniere, soprattutto quelle tedesche, austriache, olandesi, americane e anche italiane – scelgono di delocalizzare in Ungheria guardando al costo del lavoro, alla qualità della manodopera, alla localizzazione geografica e alle prospettive di sviluppo nei mercati dell’area”.

E l’articolo, di quest’anno, chiude così: “Anche le caute stime della Commissione europea indicano che la crescita del Pil ha raggiunto il 2,9% l’anno passato con debito e deficit di bilancio contenuti rispettivamente nel 75% e nel 2,3% del Pil”. Renzi, che dici?

 

(Teresa Callisti)