12 Febbraio 1944: Il bombardamento di piazza Asti

La testimonianza di Mario Tagliacozzo sul bombardamento del 12 Febbraio 1944 a Piazza Asti – tratta dal libro “Metà della vita” di Mario Tagliacozzo

Quell’enorme quartiere era per me pressoché nuovo: lunghe strade fiancheggiate da palazzoni moderni, molti dei quali in stile Novecento, scarsi e modesti i negozi, poco movimentate le vie.
Quartiere senza un suo carattere determinato, ma con quell’aspetto incolore comune ad un qualsiasi quartiere moderno di una qualsiasi grande città italiana.
Non vedendo quindi nulla di noto intorno a me, potevo indifferentemente dirmi a Milano o a Roma.
Il tram terminava a Piazza Ragusa, un’ampia piazza che portava profonde tracce di recenti bombardamenti: una casa completamente squarciata e molte altre con i segni della mitraglia e degli shrapnel sull’intonaco, nei vetri infranti e nelle persiane contorte.
Giungemmo alla nostra casa, a pochi passi dalla fermata tranviaria, in via San Remo 16, una breve strada chiusa da un lato dalla via tranviaria che passa lungo via Taranto, e dall’altro da una vasta piazza.
Mi sembrò subito di aver visto in altra occasione quella località, giungendovi da strade vicine e precisamente da via Casalmonferrato, sede del magazzino, dove Elena ha i suoi mobili e da via Alba, dove, da ragazzo, ero giornalmente venuto durante la guerra a prestar servizio come giovane esploratore in un Segretariato del popolo del comitato di organizzazione civile.
Era quest’ultimo un ricordo di 25 anni or sono e l’aspetto dei luoghi era completamente mutato perché allora la via Alba sboccava sulla campagna. Case di aspetto modesto, popolare, alcune già sciupate dal tempo, enormi casermoni, veri alveari.
La nostra casa si distacca un poco dalle altre per un’aria più civile di un Novecento non spinto, con balconi e terrazze.
La prima impressione fu buona: portone accogliente, androne modesto ma pulito e rifinito, scala a chiocciola di un aspetto quasi pretenzioso, rifiniture passabili, assolutamente nulla di repulsivo, neppure quegli odori di cucina che ti mozzano il fiato e che sono spesso comuni a case anche di lusso. Salimmo in ascensore, accompagnati dal portiere, sino al settimo piano all’interno 29: un appartamento modesto e più che modestamente ammobiliato. Ma chiaro, luminoso, arioso, direi quasi accogliente, composto da una stanza chiusa (se l’era riservata per i suoi mobili il proprietario), e di altre due stanze ed accessori: un interesso buio, la stanza da pranzo con un divano letto.
Il bagno completo (eccettuato lo scaldabagno), la stanza da letto assai piccola e con un letto matrimoniale proporzionato all’ambiente e la cucinetta chiara e luminosa.
Tutto piccolo e raccolto, ma pulito, chiaro e rallegrato da un ampio terrazzo a livello sul quale davano tutte le stanze e che, pieno di painte, circondava tutta la casa con una larghezza di 3 metri ed un lunghezza di 12.
E’ quanto il destino ci offre: è una casa, è un tetto!
– Ti piace? – mi chiede Messina
– Sì, può andare, ci staremo benissimo!
L’impressione è buona, anche per Roberto, ma dentro di me penso come faremo a vivere in 5 persone in quelle 2 stanze da bambola, in quella scatoletta minuscola, e in 3 in quel letto di proporzioni ridotte e…per quanto tempo?
(…)
Quindi: d’accordo, l’affare è concluso. Due parole di Messina ad un orecchio del portiere:
– il mio amico è un funzionario…deve stare nascosto…non vuole andare al nord…
Il portiere è comprensivo e una mancia sistema tutto…
Saremo padroni di una casa, problema che nella Roma del 1944 con oltre due milioni di abitanti, con un numero strabocchevole di forestieri e di sfollati può dirsi quasi insolubile.
(…)
Già una delle prime sere, quando appena il sonno ci aveva avvolti e il tepore delle lenzuola aveva tolto alle nostre membra il gelo che ci perseguitava, fummo all’improvviso risvegliati da un grosso rombo, da un fragore spaventoso, reso anche più pauroso dall’essere sorto dal silenzio e dal buio.
I vetri tremarono, la casa sembrò scossa; balzammo in piedi spaventati, ma, dopo pochi istanti, il silenzio era già tornato e, per quanto emozionati, rientrammo in letto.
Apprendemmo l’indomani che si trattava di un apparecchio americano che, abbattuto, era caduto scoppiando sulla via Casilina sopra ad una casa.
Poi due o tre giorni dopo, il 12 febbraio, un sabato sera poco prima delle 22, mentre eravamo tutti raccolti in stanza da pranzo, eccettuate Franca già a letto e Nannina che dormiva ancora fuori, cominciammo a sentire un aereo che girava, passava e ripassava sulle nostre teste, ora allontanandosi e perdendosi lontano ed ora riavvicinandosi a noi, producendo come un senso morboso di attesa. Di notte, dopo il coprifuoco, l’allarme non veniva più dato ed ogni aereo ci lasciava dubbiosi: sarà amico o nemico?
Non facemmo quasi in tempo a parlare ed a preoccuparci, non avemmo il tempo di pensare a pericoli; ad un tratto fu uno scroscio pauroso, come uno schianto metallico, come una vibrazione violentissima che fece tremare i vetri e quasi scuotere tutta la casa. Durò pochi secondi, un attimo forse, ma fu come un tuono che ci dette l’impressione di un pericolo grave ed imminente.
Una bomba!
Balzammo in piedi di scatto, abbandonammo rapidi la stanza esterna e, mentre i ragazzi già in letto si rivestivano precipitosamente, afferrammo franca, la coprimmo alla meglio e giù di corsa per le scale.
Era una bomba, alla quale ne seguì subito una seconda, poi una terza ed altre ancora e tutte certo vicinissime a noi. Le scale erano semibuie ed a fatica potevamo mettere un piede avanti all’altro, specialmente io, che avevo il peso di Franca sulle braccia, avvoltolata in una coperta. Molte porte si aprirono, molti scendevano e già il rifugio era pieno di gente del palazzo o proveniente da fuori, perché il nostro rifugio aveva fama di essere anticrollo e costruito a regola d’arte.
Così avemmo i primi contatti con i nostri coinquilini ed i primi racconti dell’accaduto.
Le bombe erano cadute sulla piazza Asti a poco più di 100 metri vi erano case colpite, una abbattuta, morti e feriti.
Anche il nostro palazzo aveva quasi tutti i vetri infranti dal lato della strada opposto alle nostre finestre, che rimasero fortunatamente intatte. Una intera famiglia era fuggita dalla zona colpita ed era venuta a ripararsi da noi.
Eravamo quanto mai emozionati: eravamo sfuggiti ad un pericolo per venirne ad affrontare un altro.
Che fare?
Restare in questa casa o abbandonarla?
Ma dove andare?
L’indomani vedemmo a pochi passi da noi la scena paurosa: già al nostro portone la strada era piena di vetri infranti, a breve distanza, sulla piazza, due case abbattute ed altre devastate: le facciate sino agli ultimi piani portavano sull’intonaco i segni delle schegge delle bombe, le persiane erano strappate, contorte, divelte, grosse buche sul lastrico indicavano i luoghi di caduta delle bombe, un’altra zona era invece cintata come indicazione di una bomba inesplosa. Dai giornali apprendemmo che vi erano stati morti e feriti e che lo stesso aereo che aveva lanciato bombe anche in via Mecenate, a pochi passi dal Largo Brancaccio, in piena Roma, devastando una clinica e causando molti morti e feriti.

Molti mesi dopo, seppi che tra le vittime di quel palazzo vi era stato Arnaldo Spizzichino, che vi abitava sotto falso nome.

Ricordo le serate che seguirono quella del bombardamento.
Continuava a far freddo e fu quello il periodo in cui maggiormente lo soffrimmo, nella casa priva di riscaldamento e con le finestre che chiudevano male e lasciavano filtrare l’aria.
Avvertivamo da lontano il rumore del motore, dapprima come un semplice ronzio e poi sempre più distinto.
Tendevamo l’orecchio e si iniziava il solito dialogo:
– mi sembra l’aereo!
– no è un camion
– Questo è certamente l’aereoplano!
– Ma no, è il motore dell’ascensore

Eravamo tutti in agitazione e ogni volta era un sospiro di sollievo e una nuova ansiosa attesa.
Poi l’aereoplano si avvicinava, non vi era più dubbio, passava sulle nostre teste, si allontanava, scompariva.
Ci mettevamo tranquilli, riprendevamo la lettura, ma il rumore tornava a farsi sentire dopo pochi minuti e continuava così per vario tempo.
La contraerea sparava, sentivamo sganciare bombe più o meno lontane e, affacciandoci, potevamo a volte vedere il cielo illuminato a giorno dai razzi. Che fare? Attendere ancora…svegliare e vestire Franca…scendere al rifugio…e così ogni sera per una decina di sere; e ogni sera l’attesa diveniva paurosa, spasmodica, con tutti i nervi tesi a distinguere il temuto rumore, mentre qualche finestra si apriva, qualche porta si richiudeva sulle scale (…) ogni notte si finiva per scendere una o due volte al rifugio.
Una volta finiti gli allarmi notturni, cominciarono, e sempre più frequenti, quelli diurni, molto più gravi seppure meno paurosi.
Annunziati dal triplice ululo delle sirene, erano accolti dagli abitanti del nostro quartiere già provati in passato, con un terrore che si ripeteva ogni volta e che era ignoto alla popolazione di altre zone di Roma ed in particolare di quelle centrali.
A volte la sirena era già preceduta da mitragliamenti, da sganci di bombe e da spari della contraerea, mentre il cessato pericolo era seguito dai nuovi colpo che precedevano un altro allarme.
Vedevamo subito gente che abbandonava il quartiere, specie la stazione, per fuggire verso il centro.
Le basiliche di San Giovanni e di Santa Maria Maggiore erano meta di centinaia e centinaia di persone che finivano per passare, sedute all’aperto, l’intera mattinata sui gradini delle chiese tornando a casa dopo le 14 e questo perché, per molto tempo, come già in luglio ed in agosto, le ore delle più gravi incursioni furono quelle tra le 11 e le 14.

(tratto da Carlo Galeazzi – Roma città aperta –  Gli anni della guerra)