Wind vuole personale “di sesso femminile”

Cartello Wind“Parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”. E’ quanto recita l’articolo 1 del decreto 216 del 9 luglio 2003, che attua una sacrosanta direttiva (la 2000/78) della Commissione europea per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Un’indiscutibile conquista civile.

In sostanza, chi cerca personale non dovrebbe esprimere preferenze – addirittura per iscritto – relativamente all’età (ad esempio, non manca chi pretende “giovanissimi” perché di solito più disponibili ad accettare condizioni di lavoro poco gratificanti), al genere (è il caso della richiesta di uomini per mansioni ritenute “pesanti” o di ragazze a cui si aggiunge il requisito svilente della “bella presenza”), al luogo di residenza o addirittura alla razza (“rigorosamente italiani”). Le inserzioni di ricerca del personale, salvo rare eccezioni previste dalla legge (come per il mondo dello spettacolo o le forze armate) dovrebbero menzionare unicamente qualifiche e competenze professionali e altre informazioni sul lavoro offerto, non certo requisiti personali del potenziale candidato. Sembra, invece, che quella celebre foto degli anni Cinquanta ritraente un cartello di affitto immobiliare nel Nord Italia con “esclusione di meridionali” torni periodicamente d’attualità.

Sono dure a morire, pertanto, le offerte di lavoro espressamente vietate dalla legge, cioè quelle velatamente ambigue o decisamente discriminatorie. Anzi, secondo l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio, questi illeciti continuano ad aumentare. Una tendenza che rende vana l’attuazione di continue e costose campagne promozionali sul tema della parità di genere, di seminari ed eventi, di un apposito “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” decretato dall’articolo 6 della legge 246 del 28 novembre 2005 e di un lungo elenco di norme che includono l’articolo 3 dalla Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), l’articolo 3 della legge 127 del 1997 che ha abolito il limite d’età per la partecipazione ai concorsi indetti dalla pubblica amministrazione fino al decreto legislativo 5 del 2010 che vieta espressamente qualsiasi forma di discriminazione e prevede severe sanzioni.

Il fenomeno, alimentato anche dalla crisi economica, è indicativo di una situazione che avvicina l’Italia alle nazioni con meno diritti. Come la Cina, dove l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, rileva la presenza di richieste di lavoro di soli uomini per il servizio civile nazionale del 2018 addirittura in un caso su cinque, mentre il noto colosso Alibaba avrebbe pubblicato annunci di assunzione riservata solo a “belle ragazze”. L’analisi compiuta su oltre 36mila annunci di lavoro pubblicati tra il 2013 e il 2018, sviluppata nelle 100 pagine del rapporto, ha riscontrato anche un 13 per cento di posizioni “riservate ai soli uomini” nell’elenco dei posti di lavoro governativi del 2017.

Ma se persino in Cina le cose cominciano a cambiare (una scuola di cucina nella provincia di Zhejiang è stata costretta a pagare duemila yuan per aver pubblicato un annuncio sessista), in Italia è possibile fotografare sulla vetrina di un negozio della Wind in zona Appio, a Roma, una richiesta di personale “di sesso femminile”. Più esplicito di così.