OPINIONI / Questo matrimonio non s’ha da fare

di-maio-renziImpopolare e improponibile. L’eventuale accordo tra Pd e M5S per dar vita al nuovo governo, dopo la chiusura (temporanea?) del “forno” con il centrodestra, calamita dalla base delle due formazioni politiche un vero e proprio plebiscito di aggettivi avversi. Prevedibile. E le ragioni non mancano. Motivazioni di testa e di pancia.

L’attrito poggia innanzitutto sulle profonde divisioni nella natura dei due organismi: il primo è un partito dalla struttura tradizionale, con un’ampia dialettica interna; l’altro, che si definisce “movimento”, ha un’anima giovane, liquida ed estremamente digitalizzata. Discrasie sono presenti anche nei programmi, nonostante la recente opera di maquillage compiuta dai pentastellati per attenuare le distanze dai possibili interlocutori.

Le prove delle distanze sono numerose. Un esempio è fornito dal Jobs Act renziano. I grillini vorrebbero ridurlo carta straccia, tra l’altro riesumando l’articolo 18, cioè la norma, applicata nelle aziende con oltre 15 dipendenti, che prevedeva il reintegro obbligatorio dei dipendenti licenziati ingiustamente. Materia da sinistra antagonista. E nessuno può, infatti, ignorare che queste posizioni drastiche hanno permesso al movimento di Di Maio di raccogliere voti proprio tra molti ex militanti di sinistra.

Analogamente la riforma Fornero, che ha portato a 67 anni l’età di congedo dal lavoro per assicurare boccate d’ossigeno ai conti pubblici, è un cavallo di battaglia dell’europeista Pd, che tra l’altro è stato costretto ad attutire gli effetti della legge attraverso l’Ape, il prestito pensionistico. Di Maio, insieme a Salvini, ha sempre cavalcato l’opposizione al provvedimento, promettendo che una volta al governo l’avrebbe riscritto, addirittura non disdegnando lo sforamento del tetto del 3 per cento del Pil per il disavanzo pubblico (con le conseguenti preoccupazioni dell’Unione europea). Un cambio di rotta dei pentastellati non sarebbe ovviamente ben visto da buona parte degli undici milioni dei loro elettori.

Altro tema che accentua le distanze è quello dell’immigrazione. Per quanto la posizione dei Cinque Stelle non sia del tutto univoca in materia, il programma parla di “obiettivo sbarchi zero”, “stop al business dell’immigrazione”, rimpatrio immediato di tutti gli irregolari e più risorse per potenziare le commissioni territoriali per valutare in modo più spedito se un migrante abbia diritto di stare in Italia oppure no. Inoltre sul ddl cittadinanza, il Movimento Cinque Stelle si è astenuto in blocco.

Certo, non mancano anche punti in comune: il Reddito di inclusione targato Pd è più o meno in linea con il Reddito di cittadinanza dei pentastellati, con l’obiettivo comune di contrastare la crescente povertà, per quanto con una rilevante differenza di risorse da investire. Una linea vicina è riscontrabile sui temi delle detrazioni per la famiglia e nell’attenzione per le imprese.

Tuttavia un ipotetico matrimonio tra le due formazioni politiche presenterebbe problemi anche in termini di numeri, in quanto la maggioranza sarebbe tutt’altro che solida. Se alla Camera, fatta salva la fedeltà di tutti i deputati, si potrebbe contare su 333 deputati su 630 (222 del M5S più 111 del Pd), la situazione si presenta più complicata al Senato (109 del M5S più 52 del Pd), con 161 senatori su 320 complessivi. Qui un’ipotetica maggioranza di governo potrebbe quindi contare su uno o due voti di scarto. Con i quattro senatori di Leu, l’abbinata M5S-Pd arriverebbe a quota 165, più qualche altro voto che potrebbe giungere dal gruppi misto. Insomma, tante alchimie e soprattutto rischi defezioni, causa la non scontata compattezza soprattutto nel Pd.

Resta come una spada di Damocle il rischio dello sgretolamento dei consensi. Sintetizza bene un Tweet di un militante pentastellato: “Tu voti il M5S per avere meno Europa e ti ritrovi al governo il Pd che mette ai 5Stelle le condizioni della lotta al sovranismo e una decisa spinta europeista”. Anche nel Pd furoreggia in queste ore l’hashtag #SenzaDiMe per opporsi ad un’alleanza con i Cinque Stelle (anche se viene rimproverato a questi oppositori un emblematico silenzio di fronte alle alleanze con Alfano o Verdini o quando venivano approvate riforme come il Jobs Act o la “Buona Scuola”, che ha fatto perdere ai democratici tanti voti della classe insegnante).

A fronte di questa “rivolta della base” non sarebbe certo un’iniziativa idonea a riavvicinare i cittadini ai partiti, confermando che le decisioni importanti continuano ad essere frutto di accordi tra le segreterie.

Comunque, qualora “il matrimonio” accadesse, da parte del Pd è individuabile una strategia speculare tesa a far passare il messaggio che la scelta sarebbe finalizzata “al bene del Paese”, a fronte dei tanti giorni di inutile balletto della politica tra centrodestra e Cinque Stelle. Un ruolo di “salvatore della patria” che calzerebbe a pennello per il riscatto renziano, una sorta di “sacrificio” per assicurare un governo all’Italia dopo le elezioni e consentire di riprendere la governabilità dell’intero sistema economico che così perdurando perderebbe certamente terreno. In fondo gli italiani, dopo la folata delle proteste, anteporrebbero il buonsenso al masochismo. O no?

(Domenico Mamone, presidente Unsic)