OPINIONI / L’impietosa statistica sul lavoro

Business colleagues working and analyzing financial figures on a graphs

Gli innumerevoli dati che l’Istat sforna quotidianamente spesso fanno storcere il naso ai tanti discepoli di Trilussa. Cioè a quelli allergici alle statistiche, memori – per dirla con lo straordinario poeta romanesco – che “la media è sempre eguale puro co’ la persona bisognosa”. Se uno mangia un pollo e l’altro no, risulterà sempre mezzo pollo per uno. Non fa una piega. Oltre alle “medie” penalizzanti degli uni e favorenti degli altri, c’è anche la continua offerta di scenari da trend altalenante, ora un più 0,1 per cento, ora un meno 0,1 per cento, che possono sempre essere letti come il bicchiere semipieno o semivuoto. Come diceva Esar, la statistica permette a esperti diversi, usando gli stessi numeri, di trarne diverse conclusioni. Verissimo.

Più sarcastico Charles Bukowski, il quale scriveva di non fidarsi assolutamente delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media. Geniale.

Figuriamoci, allora, quando si tratta di fotografare la situazione del mercato del lavoro. Nella privilegiata categoria degli “occupati”, ad esempio, c’è sempre una buona percentuale di coloro che occupati stabilmente non lo sono. Roba di mesi in un anno, di giorni, persino di ore. Basta un’ora in una settimana e si finisce tra i privilegiati. Così come tra i lavoratori autonomi si può ritrovare uno che in realtà è socio di una cooperativa. Insomma, già si potrebbe discutere molto sulle quantità, cioè sui numeri, figuriamoci poi sulla qualità. Perché il lavoro, non c’è statistica che tenga, è sempre meno Lavoro con la “elle” maiuscola. Meno tutele, meno garanzie, meno retribuzione.

Ecco, allora, che l’Istat, forse cosciente che non tutti prendono per oro colato la mole di numeri e di percentuali spesso eccessivamente tranquillizzanti, offre un prodotto più accurato: un Rapporto, il primo, “integrato” sul mercato del lavoro, presentato nelle ultime ore. Cioè figlio dell’incrocio dei dati dell’Istat con quelli del ministero del Lavoro, dell’Inps, dell’Inail e dell’Anpal. Insomma, percentuale nella percentuale: l’errore, se c’è, diventa medio, quindi viene attutito. L’unione fa la forza. Finalmente, però, fuoriesce un quadro d’insieme e sul lungo periodo.

Grazie a questo incrocio di dati, la situazione del mondo del lavoro (e dell’economia in genere), stavolta, s’avvicina molto di più a ciò che percepiamo quotidianamente. La crisi, nonostante qualche proclama ottimizzante dai piani alti, ha colpito duro. Continua a colpire duro. Con vittime certe. I giovani, per cominciare.

Tra il 2008 e il 2016, il tasso di occupazione per i 15-34enni è diminuito di 10,4 punti. Mentre per i 55-64enni è addirittura aumentato di 16 punti. Di fatto i più adulti sono riusciti meglio a difendere il proprio posto di lavoro. Con la conseguenza logica che l’età media dei lavoratori italiani è aumentata vertiginosamente: dai poco più di trent’anni nel 1993 a più di quarant’anni nel 2017. nella pubblica amministrazione addirittura s’è arrivati a 48 anni. Praticamente quei comparti dove c’è bisogno di innovazione, dinamismo e internazionalizzazione continuano ad essere in mano ad una generazione spesso “datata”, con scarsa propensione all’aggiornamento e alla formazione. Ovviamente anche le leggi sulla previdenza c’hanno messo del loro.

Le conseguenze le avvertiremo tra qualche anno, quando cominceremo ad avere pensionati con assegni leggerissimi a causa di contribuzioni flebili e intermittenti. Il trend continua ad essere questo: i contratti a termine, in particolare quelli di breve durata, continuano a crescere: i lavoratori coinvolti sono arrivati a quattro milioni nel 2016, un milione in più rispetto a quattro anni prima. Dal primo trimestre del 2017 la precarietà cresce ancora fino a raggiungere nel secondo trimestre un più 4,8 per cento.

Altro capitolo dolente: il Mezzogiorno. Se il tasso di disoccupazione al Nord è persino più basso rispetto alla media europea – 7,6 contro 8,6 per cento – nel Mezzogiorno è intorno al 20 per cento, il valore più elevato dell’Unione europea dopo la Grecia. Il 61,3 per cento dei giovani disoccupati del Sud è da più di due anni che non lavora. Da qui il boom della fuga all’estero.

Del resto, tanto per snocciolare qualche altro dato, il 67,7 per cento di disoccupati di lunga durata è costituito da giovani che ancora stanno cercando il primo impiego: la percentuale di giovani senza esperienze lavorative è del 25,8 per cento tra i 25-29enni e del 12,6 per cento tra i 30-34enni. Gente che non ha mai lavorato.

(Domenico Mamone – Presidente Unsic)