OPINIONI / Una destra sempre più estrema

Suffragata dalle scelte degli elettori, l’ennesima svolta a destra di un Paese comunitario – è il caso, nei giorni scorsi, della Repubblica Ceca, dopo quelli dell’Austria e della Germania nelle scorse settimane – conferma in maniera puntuale una tesi che portiamo avanti da tempo: non è la sola crisi economica ad alimentare le adesioni ai programmi più “muscolosi” incarnati dalle formazioni della destra estrema, che stanno scavalcando persino quelli della destra tradizionale, in genere moderata. Insomma, oltre alle paure economiche, c’è di più.

Due motivazioni, tra le tante, a supporto della nostra opinione.

estrema-destra-2La prima è che la crisi economica c’è da ormai un decennio mentre il boom dell’estrema destra è delle ultime stagioni: si potrebbe pensare ad un effetto ritardato, ma l’intervallo di tempo è onestamente troppo accentuato. La seconda è che le nazioni che nelle ultime settimane hanno premiato la destra più estrema sono quelle dove la crisi ha battuto meno: la Repubblica Ceca, ad esempio, che ha punito severamente il centrosinistra finora al potere, vanta un’invidiabile crescita economica con un Pil al 3,6 per cento e la disoccupazione addirittura al 2,9 per cento, tra le più basse di tutto il vecchio continente.

Perché, allora, le folle s’affidano all’estrema destra? Secondo noi un peso rilevante è incarnato dalle politiche dell’Unione europea, in particolare quella sulla gestione dei flussi migratori, materia che mette frequentemente in discussione il ruolo stesso dei Palazzi di Bruxelles. Una funzione vista sempre più distante dalle reali esigenze dei cittadini e, in molti casi, anche dalle radicate identità locali.

Il mix tra “voglia di conservazione”, intesa come garanzia di quelle regole (e quelle rendite) tradizionali certe e condivise, e disorientamento di fronte a flussi migratori totalmente fuori controllo sta alimentando squilibri che rischiano di tradursi persino in un rifiuto generalizzato di sistemi democratici ormai malati, oggi visti come causa delle diseguaglianze e non più come assetti di garanzia della giustizia sociale. Nel substrato di questo fenomeno c’è un paradosso: la reazione contro le derive del neoliberismo e della globalizzazione non premia la sinistra antagonista (e veteromarxista), come ci si potrebbe aspettare, ma la destra antieuropeista (e xenofoba). Alla prima non si perdona quella radice universalista che la colloca ben visibilmente a difesa dell’immigrazione (non a caso incassa le più sonore sconfitte nelle periferie, tra le classi sociali più deboli che si sentono tradite); la seconda sa indubbiamente cavalcare le salvaguardie identitarie, che – seppur intrise di non poca retorica – incarnano il miglior patrimonio di valori contro la mondializzazione. Il successo del referendum nel Nord Italia, per quanto di natura economica, incarna anche questo desiderio di rivalsa.

L’esito di tutte queste spinte è lampante: una buona parte di cittadini-elettori, accantonando la “pesante” – ma sempre più sbiadita – memoria storica legata alle dittature del Novecento, preferisce comunque affidarsi a leader forti e a formazioni radicali con la speranza che ciò equivalga ad un ritorno dell’ordine, inteso come sinonimo di tranquillità sociale e di benessere. Tale finalità oltrepassa persino gli imbarazzanti scheletri negli armadi che alcuni candidati si portano dietro: per fare un esempio, il 63enne miliardario Andrej Babis che ha stravinto le elezioni ceche (quasi un elettore su tre ha dato fiducia a questo personaggio, l’uomo più ricco del Paese), è associato a scandali legati ad abuso di fondi comunitari, a relazioni con la StB, la crudele polizia segreta comunista e ad altro. Evidentemente tutto ciò passa in secondo piano per molti cittadini rispetto alla prospettiva di una concreta “visibilità e responsabilità di comando” da parte di un leader e non di una confusa oligarchia. In fondo anche l’immortale Berlusconi e Donald Trump fanno parte dello stesso brodo: una personalizzazione del potere, percepita dai cittadini con maggiore chiarezza rispetto alla babele generata dalla corruzione di molte democrazie.

In questo senso nel cosiddetto gruppo di Visègrad (alleanza di Polonia. Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), la caratterizzazione di leader forti è un dato di fatto: Andrej Babis si aggiunge all’ungherese Viktor Orbàn e al polacco Jarosław Kaczynski. In Slovacchia il premier Robert Fico è sì un socialdemocratico (per quanto su posizioni populiste e anti-immigrati), ma il suo partito alle ultime elezioni è crollato dal 44 al 28 per cento e l’estrema destra è entrata per la prima volta in parlamento con 14 deputati sui 150 totali.

Dal momento che la Storia resta però maestra, non possiamo esimerci dal rievocare la differenza tra un popolo sovrano, soggetto attivo e partecipe, in genere educato alla valenza del bene comune, e una folla priva di conoscenze e di motivazioni civili, che preferisce demandare ad altri – preferibilmente ad “un uomo solo al comando” – le sorti di una nazione. Una differenza di non poco conto che avevano già colto intellettuali del calibro di Solone e Pericle nell’antica Grecia o di Polibio, Cicerone e Tito Livio nell’antica Roma. Le disfatte delle democrazie, seppur malate, non sono mai foriere di vantaggi per i popoli.

(Domenico Mamone, presidente Unsic)