OPINIONI / Cosa ci lascia la Pasqua

Giotto_CruxifixionNei giorni scorsi abbiamo seguito le tante forme di manifestazione della fede che hanno riempito lunghi percorsi di strade cittadine con le processioni del venerdì santo.
Chi segue la fede come elemento costitutivo della vita di tanta parte della popolazione mondiale sa che essa si esprime in diversi modi che possono andare dalla riflessione sui testi sacri, alla preghiera personale o comunitaria, alla semplice comunicazione della stessa con lo scritto o la testimonianza fino alla partecipazione a forme di liturgia, ritualità ed attività devozionali che si manifestano in pratiche religiose molto articolate come culti per i santi, processioni, feste religiose, pellegrinaggi, iscrizioni a confraternite.
In diversi documenti, come la Bolla “Auctorem Fidei” del 1794 , l’Enciclica ” Mediator Dei” del 1947, la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia “Sacrosantum Concilium”, al n. 12 e 13 del 1963 e la “Evangelii nuntiandi” del 1975, la Chiesa Cattolica ha fondamentalmente riconosciuto la possibilità di convivenza tra la liturgia ufficiale e le forme di devozione popolare, pur mantenendo tra le stesse una distinzione.
C’è in effetti chi si relaziona a Dio attraverso un rapporto riflessivo, mistico, operativo, ma molte forme di tale rapporto rappresentano una vera ricchezza in ambito socio-culturale e teologico.
Pensiamo a quanto è stato prodotto nei secoli in proposito sul piano artistico, musicale e perfino folcloristico.
Ovviamente noi riteniamo che le forme di espressione della fede siano molto personali e sempre rispettabili fino a quando non scivolano in modalità vicine all’idolatria che rischiano di essere la negazione della fede stessa.
Talora la religiosità ed il culto possono diventare estranei agli elementi costitutivi della parola di Dio soprattutto quando si pongono in primo piano le tradizioni dimenticando la centralità della relazione con la rivelazione di Cristo ed il suo messaggio di amore che dovrebbe fondare il nostro rapporto con il prossimo.
Nel Vangelo di Giovanni al capitolo 13, durante l’ultima cena, Gesù lascia ai suoi discepoli, ancora incapaci di riconoscerne la funzione nella storia, il suo messaggio fondamentale e distintivo per chi vuole definirsi credente: ” Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri ” .
È chiaro che, rispetto alla centralità di questo elemento peculiare del cristianesimo, sottolineato anche nel concetto di reciprocità indicato nella triplice ripetizione “gli uni gli altri”, l’espressione più autentica della fede non può essere se non la sua testimonianza nel mondo con la vita.
In tal senso crediamo che Raimon Panikkar nel suo volume “L’ homme qui devient Dieu; la foi dimension constitutive de l’homme” del 1969 abbia colto davvero al riguardo il senso della giusta via da tenere quando sostiene che essa non si identifica tanto e solo con l’adesione ad una dottrina o con la rettitudine morale, quanto con l’ortoprassi come lui definisce la condizione del cristiano che non può essere unicamente spettatore ed interprete della condizione del mondo, ma attore del suo cambiamento per indirizzarlo al bene.
Siamo chiaramente di fronte ad una visione della fede in cui le dimensioni della teoria, della contemplazione e della preghiera sono inscindibilmente legate a quelle della prassi, dell’azione e dell’impegno politico e sociale.
Rispetto ad una tale concezione per noi decisamente condivisibile ci chiediamo dove si trovano tutte quelle folle partecipanti alle tante manifestazioni della fede consistenti in riti e funzioni quando si tratta di difendere i beni ed i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che in questo momento storico sono messi così in discussione da un neoliberismo selvaggio ed inconcludente espressione soprattutto di una miope plutocrazia finanziaria i cui esponenti magari sono in bella vista proprio nelle stesse manifestazioni religiose nelle quali ostentano solo la loro ipocrisia.
Papa Francesco si esprime con grande chiarezza rispetto ai doveri del cristiano per la creazione della giustizia sociale.
Noi dei diritti dei cittadini abbiamo ascoltato la proclamazione anche da parte di taluni esponenti di rilievo delle chiese locali, ma non li abbiamo mai visti presenti, fisicamente o con documenti, insieme a quella parte del popolo che si assume la responsabilità di metterci la faccia per rivendicarli e per ricercare le responsabilità di chi li calpesta.
Vogliamo anche aggiungere in ogni caso che da credenti non accettiamo neppure certe critiche indistinte e generiche sull’ignavia dei cattolici o sulla loro cattiva coscienza, perché l’assenza nell’impegno civile, sociale e politico nella lotta per i diritti e nell’elaborazione d’idee accettabili nell’organizzazione della società va ricercata in modo più largo in tanti cittadini che purtroppo rifluiscono nel privato ed accettano le diseguaglianze sociali magari entrando sistematicamente nel sistema clientelare o accontentandosi di briciole che prima o poi si dileguano.
Se siamo capaci di un’osservazione oggettiva e non pregiudiziale ci accorgeremo che l’assenza di impegno responsabile e di partecipazione nel sociale ha davvero orizzonti molto larghi.
Talora scaricare su altri responsabilità comuni è fin troppo facile, mentre a nostro avviso abbiamo il dovere di cercare e stimolare l’impegno altrui, ma solo partendo dal nostro.

(Umberto Berardo – 18 aprile 2017)