OPINIONI / La scuola (mal) “ridotta”

ScuolaNon poteva che essere accompagnata da una pioggia di polemiche – per fortuna – la sperimentazione che mira a ridurre strutturalmente da cinque a quattro gli anni della scuola superiore italiana. A distanza di oltre un anno dal suo annuncio, il ministero dell’Istruzione ha reso noti i 100 istituti superiori – presenti in tutte le regioni – che dal prossimo anno scolastico faranno partire una prima classe che terminerà il suo ciclo di studi dopo soli quattro anni rispetto ai cinque, durata storica e attuale di tutti gli indirizzi dell’istruzione superiore nazionale. Insomma, si comincia con le “mini-superiori”, così come del resto s’è già fatto con le “mini-lauree” negli atenei.

L’obiettivo di questo “taglio” temporale, che risponde ad una logica americaneggiante fatta propria anche dai Palazzi comunitari, sarebbe quello di far anticipare l’ingresso nel mondo del lavoro o all’università dei neodiplomati. La maturità a 17 anni, addirittura a 16 per chi ha iniziato scuola a cinque anni. Qualcuno prevede l’esito più realista: anticipare di uno o due anni l’ingresso nel mondo della disoccupazione.

I primi “mal di pancia” sono collegati proprio al mondo del lavoro: mentre procediamo di gran lena verso sistemi occupazionali più complessi, caratterizzati dall’influenza dell’automazione e da esigenze di maggiori competenze e specializzazioni, per quale motivo formare aspiranti lavoratori precoci nell’età e nell’istruzione ridotta, perlomeno nel tempo? Infatti, benché l’intero monte ore quinquennale venga ripartito nei quattro anni, non è chiaro come si possa mantenere lo stesso livello di apprendimento togliendo un anno di scuola. La conseguenza più scontata potrebbe essere quella di sfornare studenti che imparano molto meno, incrementando quindi il semi-analfabetismo e l’incompetenza.

Non bisogna dimenticare, del resto, che già oggi è difficile, per un professore, portare a termine il programma. La “famigerata” alternanza scuola-lavoro (la scuola del “fare” contro quella del “pensare”), le interruzioni non previste (dilaganti disagi strutturali, scioperi, occupazioni, eventi, uso dei locali per tornate elettorali, ecc.), i viaggi d’istruzione sempre più lunghi, le sostituzioni, i diffusi problemi determinati dalla crescita numerica degli studenti con disturbi d’apprendimento sono realtà con cui la scuola italiana deve fare i conti quotidianamente.

A ciò si sommano le mini-riforme, mai strutturali, che hanno accompagnato la scuola negli ultimi decenni e che spesso hanno prodotto più danni che benefici. Tanti provvedimenti, compresa la rimodulazione di molti piani di studio, sono stati caratterizzati da improvvisazione e pressapochismo. Tutto l’impianto della legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona scuola”, è ancora al centro di forti critiche e di un ampio dibattito ad esempio sull’obbligo di impiego della metodologia Clil (Content and language integrated learning, la cosiddetta “immersione linguistica” di origine canadese), ma anche sull’utilizzo dei test Invalsi per la valutazione degli esiti scolastici.

In molti Paesi la sperimentazione dei “quattro anni” di scuola superiore ha prodotto risultati sconfortanti per cui si sta tornando indietro, come è successo in Germania. Inoltre la forbice qualitativa crescente tra un apparato pubblico soggetto a tagli e un privato incentrato sulla concorrenza sta sempre più orientando le èlite a scegliere istituti privati d’eccellenza.

Allora il progetto vero di questo “taglio”, sospetta qualcuno, ha ragioni prettamente economiche: accorciare, eliminare e quindi risparmiare. Se l’esperimento venisse esteso a tutte le classi, determinerebbe tra l’altro un taglio di diverse decine di migliaia di cattedre. Insomma, sembra che la scuola, da opportunità, sia diventata un problema per i ragionieri del potere. E da anni la si sta scientificamente demolendo, salvo qualche sacca individuale di resistenza.

(Domenico Mamone – presidente Unsic)