ANALISI / Legge del cinema: si può muovere qualche critica?

CinemaCon il via libera definitivo da parte della Camera, la tanto attesa (dal settore) “riforma del cinema e dell’audiovisivo” è diventata legge. Con questo nuovo atto normativo, in sostanza, si dispone l’aumento delle risorse economiche destinate al settore, con l’istituzione di un Fondo specifico che non potrà mai scendere sotto i 400 milioni di euro di dotazione e a partire dal 2017 il complessivo livello di finanziamento del Fondo è commisurato annualmente all’11 per cento delle entrate Ires e Iva del settore. Inoltre, è previsto il potenziamento del credito di imposta (fino al 30 per cento per le imprese di produzione, distribuzione, esercizio cinematografico, industrie tecniche e di post produzione, promozione di opere italiane ed europee nelle sale, fino al 40 per cento per i produttori indipendenti che si distribuiscono il film in proprio), sono introdotti incentivi per chi investe e un piano straordinario per la realizzazione di nuove sale cinematografiche (120 milioni di euro). La riforma prevede anche l’abolizione della censura di Stato, introdotta nel 1962. Sono previsti contributi per la Biennale di Venezia, l’Istituto Luce Cinecittà e il Centro Sperimentale Cinematografia. Ancora: 10 milioni di euro per tre anni a fondo perduto o per finanziamenti agevolati per interventi di digitalizzazione delle opere audiovisive e cinematografiche da parte di imprese italiane. Infine, mentre da una parte si auspicano e si attuano tagli, viene invece istituito il nuovo Consiglio superiore, che sarà composto da 11 membri del settore.

Che dire? Mentre c’è una parte sempre più estesa del nostro Paese che sta vivendo le drammatiche conseguenze delle innumerevoli scosse di terremoto, mentre si stanziano tre miliardi e trecento milioni per la cosiddetta “emergenza migranti” (aumentando il deficit), mentre assistiamo a tagli indiscriminati in tanti settori vitali per la nostra quotidianità – dalla sanità alla scuola – invece per l’indispensabile cinema si trovano i rubinetti per aumentare del 60 per cento le risorse economiche. Eppure dovrebbe essere il mercato a decretare il successo o meno di qualsiasi iniziativa: perché tv come “La 7” offrono ottimi servizi a costo zero per il telespettatore mentre alla stragrande maggioranza degli italiani viene prelevato un canone di 100 euro direttamente dalla bolletta elettrica per il “carrozzone Rai” che elargisce stipendi da favola ai vari Fabio Fazio, Antonella Clerici, Carlo Conti, ecc.? Perché ci sono giornali che riescono a vivere (e bene) senza contributi pubblici, come “Il Fatto quotidiano” e altri che ricevono un finanziamento pubblico, cioè soldi di tutti i cittadini (anche di quelli che questi giornali non li leggono proprio)? I tagli valgono solo per la povera gente e non per quei tanti radicalchic che compongono il cinema italiano?